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Al governo pochi senatori per non sguarnire la maggioranza

POST VOTO

Oltre al "nodo Salvini" la Meloni ha il problema che per ministri e sottosegretari non può attingere troppo da Palazzo Madama. Con 12 soli voti di vantaggio dovrà probabilmente chiedere al futuro presidente di smettere la tradizionale veste "super partes"

'Vengo anch’io”. “No, tu no”. A pochi giorni dalla vittoria elettorale impazza il toto-ministri e tutti gli esponenti di spicco della nuova maggioranza ambiscono a un posto nel governo. Il “nodo Salvini” è senza dubbio quello che impensierisce maggiormente Giorgia Meloni. Ma c’è un altro aspetto, più numerico che politico, che potrebbe complicata la navigazione del nuovo esecutivo. Cos’hanno in comune i leghisti Matteo Salvini e Giulia Bongiorno, i meloniani Ignazio La Russa e Marcello Pera e, infine, le berlusconiane Licia Ronzulli e Anna Maria Bernini? Secondo i rumors sono papabili per un posto da ministro. Ma non solo. Sono tutti politici eletti a Palazzo Madama. E questo potrebbe rappresentare un ostacolo.

Ora, il centrodestra, per il momento, ha la maggioranza sia alla Camera sia al Senato: 235 deputati e 112 senatori. A Palazzo Madama la maggioranza ha però solo 11 voti di vantaggio perché, per prassi, la seconda carica dello Stato non vota. Ma, se anche soltanto tre dei politici citati dovesse entrare nell’esecutivo, i numeri si assottiglierebbero ancor di più, considerato che, molto probabilmente, uno o due senatori “di seconda fascia” potrebbero essere chiamati a far il viceministro o i sottosegretari.

“È evidente che la maggioranza non può attingere a piene mani dal Senato per quanto riguarda il governo. Un conto è se due o tre lasciano Palazzo Madama, ma di certo non possono farlo in 12. Chi fa il senatore fa il senatore e basta”, ammonisce Gaetano Quagliariello che ha alle spalle quattro legislature trascorse in Senato. Sarebbe, infatti, complicato e discriminatorio chiedere ai senatori che vogliono entrare al governo di dimettersi e non chiederlo, invece, ai deputati. “Oltretutto il Senato sta a Roma, ovviamente per votazioni importanti possono essere presenti anche i membri del governo”, sottolinea il senatore centrista uscente per il quale “il problema è mantenere una situazione di strutturale vantaggio che, al momento, esiste ed è del 15% del totale dei membri”. Eventualmente, ipotizza Quagliariello, si potrebbe pensare di far venir meno la prassi secondo cui il presidente del Senato, in quanto figura super partes, non partecipa alle votazioni. “Un conto è se questo avviene in un’assemblea di 400 persone, diverso è se avviene in una di 200...”, chiosa  Quagliariello, memore delle turbolenze che ci sono state a Palazzo Madama negli ultimi tempi.

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