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Aquile e motori: «La magia di volare dal mare»

Da una parte le navi, dall’altra gli aerei. La magia di volare dal mare, e sul mare. Era l’estate del 1913 quando in Italia, con decreto ministeriale, venne costituito il Servizio aeronautico della Regia Marina, una componente della Marina Militare - poi diventata Aviazione Navale - in cui durante la Prima Guerra Mondiale militarono Carlo Guzzi e Giorgio Parodi. Proprio negli anni del conflitto, i due amici decisero che, posate le armi, si sarebbero dedicati alla costruzione di motociclette. Con loro c’era pure Giovanni Ravelli, che morì tragicamente in un incidente prima di coronare l’ambizioso sogno: fu così che la neonata azienda, per ricordarlo, scelse l’Aquila come simbolo di riconoscimento.

Quelle ali spiegate, diventate un’icona internazionale, sono tutt’oggi la testimonianza del legame che unisce Moto Guzzi alla Marina Militare. Tanto che, in occasione del suo centenario, la Casa italiana - oggi del Gruppo Piaggio - ha presentato in anteprima, a bordo della portaerei Cavour, la V100 Mandello Aviazione Navale: si tratta di un’edizione limitata di 1913 esemplari numerati, la più suggestiva della gamma, con una livrea unica ispirata ai caccia F-35B, che guarda al futuro grazie ad una tecnologia inedita - vedi l’aerodinamica adattiva - ma allo stesso tempo rispetta la tradizione con l’architettura a V trasversale di 90° del bicilindrico, 115 CV e 105 Nm di coppia, dal sound inimitabile. 

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Dalle ali sui lati del cupolino a quelle sulla divisa di Valeria Cucci, capitano di corvetta, pilota di elicotteri. Anche lei, proprio come Guzzi e Parodi, sedotta da quell’affascinante connubio: «Fin da bambina ero attratta dalle navi con velivoli sopra», ci rivela a margine della presentazione, sullo spettacolare ponte di volo del Cavour. «Mi sembrava interessante come lavoro, una vera sfida con me stessa». In effetti, la strada per pilotare un elicottero militare è parecchio lunga: «Ricordo i mesi passati in casa a studiare per l’esame di maturità e contemporaneamente per il concorso dell’Accademia navale, a Livorno. Superati entrambi, a 18 anni mi sono lanciata in questa nuova avventura».

Verso la metà dei cinque anni di studi, ha indicato la preferenza su ciò che le sarebbe piaciuto fare all’interno della Marina: «Ci ho provato, volevo diventare una pilota». Così, dopo una selezione interna e conseguita la laurea magistrale, per lei si sono spalancate le porte degli Stati Uniti: «Durante il corso di abilitazione siamo affiancati con gli US Navy, prendiamo il brevetto in America». Un iter che dura circa due anni e mezzo: un periodo iniziale a Pensacola, in Florida, insieme ai futuri Top Gun, poi una specializzazione nella scuola di volo per elicotteri, in Texas. «Ma ho cominciato comunque a volare sugli aerei», ci racconta ancora Valeria Cucci. «Ricordo l’emozione incredibile del primo volo».

«Guardavo l’istruttore di F18, giovanissimo, che era seduto dietro di me. Cercavo di memorizzare i suoi gesti. Pensò lui al decollo, poi mi lasciò i comandi. E per me fu incredibile. Mentre guardavo fuori dal cockpit, mi fece addirittura delle foto perché diceva che avevo l’espressione stupita di una bimba di cinque anni». Tornata in Italia con le ali, appunto, ha preso come base Grottaglie per alcuni anni. «Se avrei preferito pilotare jet? No, perché in elicottero sei in un gruppo, non sei da solo. Ci sono due piloti, gli operatori, gli specialisti: mi piace lo spirito di squadra». Sulla portaerei, invece, c’è un equipaggio fisso di 550 militari, ma può arrivare ad ospitarne addirittura 1200.

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«Durante le operazioni, diventiamo anche noi parte integrante dell’equipaggio. Quindi è importante trovare la giusta amalgama: ogni mattina facciamo briefing operativi, duranti i quali si affrontano nei dettagli le nostre missioni. Quando stiamo a terra, invece, ci addestriamo per essere pronti ad intervenire in qualsiasi scenario». Insomma, un lavoro che ha bisogno di tanta motivazione: «Puoi farlo solo se sei davvero determinata, perché stai molto tempo fuori casa. Adesso ho 36 anni, dai 27 ai 33 mi è capitato di stare in mare anche nove mesi in un anno, seppur non continuativi. Un ricordo particolare? Le prime missioni di soccorso degli immigrati nel canale di Sicilia, nel 2013, cercando di portare tutti in salvo». 

«Noi, dall’alto, dovevamo fotografare questi pescherecci carichi di persone, per avere una visione completa della situazione e agevolare le operazioni delle navi. Spesso dovevamo trasportare i casi più gravi in ospedale a terra, sulla costa. E, in caso di uomo in mare, capitava che il pilota fosse costretto ad avvicinarsi a tre piedi dall’acqua, così l’operatore abilitato al recupero naufrago potesse tuffarsi e tentare il salvataggio. Una manovra di cui vado particolarmente fiera? Un bellissimo appontaggio notturno, in condizioni proibitive», ha concluso. «C’era vento e la nave ballava. Inoltre, a fianco a me, c’era una persona giovane, che si fidava. Ho pensato che ero da sola e dovevo farcela». 

Così è stato. Il potere delle ali.

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