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Etiopia, il premier Abyi in visita in Italia ma Meloni dimentica la guerra che ha provocato 600 mila morti

La questione non è se sia stato giusto o meno che le massime autorità del nostro Paese abbiano incontrato il premier dell’Etiopia Abyi Ahmed Alì, un Premio Nobel della Pace che ha scatenato una guerra civile che ha provocato 600mila morti. Ci sarà sempre qualcuno che si appellerà al senso pragmatico che deve seguire chi governa (leggi: proteggere gli affari delle imprese nazionali); e altri che si richiameranno ai principi, che non vanno mai dimenticati. Varrebbe la pena di discuterne, ma non è questo il punto.
A qualunque linea di condotta si sia affezionati, la pragmatica o l’ideale, la domanda è un’altra: perché far finta di niente? Quella guerra ha provocato, come accennato, 600mila morti, 2 milioni e mezzo di profughi e in 5 milioni rischiano la fame per una carestia che si è abbattuta sulla regione.
Come si fa a glissare considerando questi argomenti di secondo piano?
A nostra conoscenza nessuno di questi temi è stato all’ordine del giorno durante quegli incontri.
Così come non una parola è stata inserita nei comunicati, redatti alla fine dei colloqui, che facesse riferimento alla necessità che il governo etiope dovrà riportare nel Paese pace, ordine e giustizia, prima ancora di disegnare le ipotetiche messe di affari che attendono in Etiopia gli imprenditori italiani.
Ma tant’è, è andata così.
Ora che la visita lampo di Abyi si è conclusa, sul terreno sono rimasti un po’ di strascichi polemici (per esempio la posizione dura contro il governo di Lia Quartapelle, parlamentare del Pd) e qualche articolo di giornale: la guerra del Tigrai continua a restare nell’ombra.
Eppure quel conflitto ha di nuovo trasformato l’Etiopia in una polveriera, pronta a esplodere in un punto o nell’altro, contro tutte le aspettative che l’arrivo al potere di Abyi aveva suscitato nel mondo intero.

Le ragioni che avevano portato al Premio Nobel

L’ex militare, 47 anni, venne eletto nel 2018 in uno scenario politico infuocato, al culmine di tre anni di manifestazioni di piazza contro l’ex Primo Ministro Hailé Mariàm Desalegn, di etnia tigrina, che determinarono la morte di centinaia di dimostranti e la dichiarazione dello stato di emergenza.
Dal momento della sua elezione, egli inizia un programma di riforme impensabili. Primo fra tutti firma l’accordo di pace con l’Eritrea, accettando il piano dell’Onu nel 2000, rinunciando alle rivendicazioni territoriali nella zona contesa di Badme, riprendendo ufficialmente i rapporti commerciali e riaprendo le rispettive ambasciate. All’interno toglie la censura a centinaia di siti internet, giornali e tv, privatizza aziende statali, libera i prigionieri politici, apre tavoli di riconciliazione con le parti più intransigenti degli attivisti dei gruppi etnici, primo fra tutti il suo, l’Oromo, quello al quale appartiene oltre il 30% degli etiopi, più o meno 25 milioni di persone .
E’ per questo che si merita il premio Nobel per la Pace nel 2019.

Poi il cambiamento

Poi arriva il Covid e tutto viene congelato, politica compresa: le elezioni vengono rinviate, ma lui resta presidente. I tigrini non accettano il rinvio e vanno lo stesso a votare.
Abyi considera la decisione un attentato allo Stato federale e manda i carri armati nella regione.
Siamo nel novembre del 2020.
Ma il suo edificio era già scricchiolato alcuni mesi prima, in giugno, dopo la morte di un attivista Oromo molto noto, il cantante Hundessa, ucciso durante un agguato, lutto che scatena violente proteste interetniche. Per fermare le manifestazioni, Abyi non bada ai dettagli: fa arrestare oppositori, chiude giornali, oscura internet. L’ordine è riportato, ma alla fine si contano 200 morti.
La reazione appare spropositata, il leader sorprende, ma ancora non delude.

L'”operazione di polizia” nel Tigrai

Poi è arrivato il conflitto in Tigrai. Mentre per una semplice “operazione di polizia” (l’ha detto Abyi prima di Putin) nella regione in rivolta vengono mandati i carri armati, il Paese viene sigillato: nessuno può uscire né entrare.
E quando i ribelli del Fronte tigrino sembrano avere la meglio, Abyi chiama l’esercito eritreo a dare una mano. Dura due anni, tra una strage e l’altra, fino al 2 novembre scorso, quando a Pretoria, in Sud Africa, viene firmato un accordo fragile fra le forze ribelli della regione del Tigrai e quelle federali del governo.
Molte ombre si allungano su quel documento.
Intanto esso non è stato siglato dall’Eritrea, il terzo protagonista della guerra: perché?
Eppure Isaias Afewerki, il dittatore di Asmara, non ha avuto un ruolo secondario in questa guerra, anzi. Dal punto di vista militare, viene considerato decisivo l’ultimo attacco sferrato dal suo esercito nello scorso settembre contro le truppe del Fronte popolare di liberazione del Tigrai. Dopo quell’operazione, stremata anche dalle condizioni di vita infernali della popolazione civile, la resistenza tigrina si è spenta e a novembre si è giunti all’accordo di Pretoria.

Perché l’Eritrea non ha firmato quell’accordo?

Che cosa vuole Asmara per ritirare il suo esercito dall’Etiopia? Oppure è Abyi a essere interessato a tenere lì il suo collega eritreo come cane da guardia? Il solo fatto che ci si ponga le domande, qualunque siano le risposte, si lascia intendere che le armi non cesseranno di essere usate tanto presto, accordo o non accordo.
Veniamo nello specifico: su che cosa si sono accordati a Pretoria?
Da parte del governo centrale si promette :“l’arresto di qualsiasi operazione militare contro il Fronte tigrino (Tplf)”, il “rispristino dei servizi essenziali” per la popolazione del Tigrai, la cancellazione del Tplf dalla lista delle organizzazioni terroristiche stilata da Addis Abeba, il libero accesso delle Ong umanitarie nel territorio tigrino per portare assistenza ai civili.
Dal canto suo il Fronte tigrino promette di rispettare l’autorità del governo centrale e la sovranità del Paese, evitando “rapporti con potenze straniere”, di non schierare o addestrare forze militari “in preparazione a un conflitto”, di non forzare cambi di governo con mezzi incostituzionali e di non “supportare altri gruppi armati in altre parti del Paese”.

Un passo avanti ma, il percorso è ancora lungo

Ovviamente tutte le cancellerie che contano, compresa l’Italia, hanno concordato che si è trattato di un passo avanti nella ricostruzione del Paese e della pace; ma nello stesso tempo tutti intuiscono che il percorso è ancora lungo e che il processo potrebbe anche non riuscire, dato i numerosi protagonisti in campo, Eritrea in primis, come si è fatto cenno.
Tornando all’Italia e all’incontro con Abyi: proprio per tutti questi motivi non era necessario da parte del nostro governo maggiore determinazione? Almeno per ottenere la premier la promessa di far tornare alla normalità la regione martoriata: riaprire le scuole, chiuse da tre anni, far funzionare gli ospedali, per fare gli esempi più semplici.
E inoltre, se è vero, come sostiene la premier Meloni, che l’Italia ci tiene al suo ruolo di partner “privilegiato” nell’intera regione del Corno d’Africa, non sarebbe stato necessario essere chiari con lui a proposito del comportamento di Roma di fronte alle atrocità commesse in Tigrai? Avremmo dovuto dirgli che, affari o non affari, l’Italia avrebbe partecipato con lealtà e determinazione all’operazione promossa dall’Onu per verificare e punire i crimini di guerra commessi nel nord dell’Etiopia. Chiunque li abbia commessi. Perché, come dice l’Onu, non può esserci pace senza giustizia.