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Matteo Salvini, il tramonto del Capitano: i tre anni di errori e capricci del grande dissipatore

l paese del melodramma, quando Salvini saliva sui palchi gli mettevano come colonna sonora il “Vincerò”. Seguiva un inedito rituale: breve comizio e interminabile coda per i selfie: ah, gli italiani, quanto si stufano facilmente! Ma con quanta cieca naturalezza, viene anche da pensare, i leader politici di questo tempo partecipano al campionato per la più grande dissipazione.

Salvini, il trionfo alle europee del 2019

Era la primavera del 2019, si votava per le Europee. A Forlì Salvini salì su un certo balcone voluto da Mussolini, le cronache riportano che si mise a torso nudo per indossare una maglietta che recava disegnato il suo stesso volto. A Catanzaro si mise la sciarpa tricolore e annunciò un decreto Sicurezza bis; a Zingonia, fotografatissimo, salì su una simbolica ruspa per abbattere delle costruzioni abusive; a Pietrelcina volle marcare la sua presenza sui luoghi di Padre Pio; a Milano, piazza del Duomo, baciò il rosario. Ogni volta, in linea con quella che Gramsci aveva designato come «la malattia melodrammatica italiana», risuonava la Turandot, “all’alba vincerooooo!”, versione Pavarotti. E vinse, in effetti. Il 26 di maggio la “Lega per Salvini Premier”, in tal modo battezzata in quell’occasione, ottenne il 34,26 per cento. La Bestia iper-social di Morisi, sulla cresta dell’onda, aveva appena lanciato una specie di torneo di like intitolato “VinciSalvini” il cui premio consisteva nel passare con lui qualche ora. Giorgetti, allora meno dubbioso, profetizzava un imminente «plebiscito».

"Salvini the strong man of Europe"

Alla festa della Repubblica, the strong man of Europe – perché a volte pure i corrispondenti stranieri si lasciano trasportare dall’enfasi – passeggiò radioso nei giardini del Quirinale con la giovanissima Verdini sottobraccio, erano la super coppia vincente, dietro di loro un codazzo di adulatori, vil razza dannata. Uno di questi lo sentì far suo, con finta e compiaciuta meraviglia, lo sfoggio della taumaturgia berlusconiana: «Tutti mi salutano, tutti mi vogliono toccare, forse perché guarisco gli infermi». Grandi risate. Alla Rai, che su queste cose ci puoi caricare l’orologio, approdò proprio in quei giorni il suo vecchio collega e fresco biografo leghista, e “Uno Mattina” divenne “Uno Salvini” (l’Agcom non fece obiezioni). Agli avversari, che per via degli sbarchi contrastati dal Viminale non erano pochi, il ministro rispondeva allegramente: «Bacioni»; «è finita la pacchia», ripeteva, pure estendendo il motto ai giovani che organizzavano i rave.

In questi casi di solito i potenti avvertono dentro una forma di febbrile inquietudine, la smania di approfittare in fretta del kairòs, del momentum, ora o mai più. In realtà non c’è testo sapienziale che non consigli prudenza perché la vittoria il più delle volte rende bambini i superbi. E se il sole, come illustrano le vicende di Re Salomone, comincia a tramontare proprio a mezzogiorno, in tempi più recenti la moderna sociologia ha comunque prodotto una cospicua letteratura sul turbinoso e imprevedibile dinamismo che compete alla mobilità elettorale, per cui i cittadini-consumatori chiamati alle urne si comportano come sciami, un giorno ci stanno e producono il miele, un altro non li trovi più. Chi appare troppo, in altre parole, consuma attenzione.

La via del Papeete: quando Salvini fece cadere Conte

Venne anche Putin in quei giorni, con cuoco assaggiatore e una limousine che entrava a stento a Palazzo Chigi. Salvini sottovalutò l’affare Metropol, l’origine degli spifferi, i suoi avvertimenti. Faceva caldo e prese la via del Papeete, la consolle, il mojito, le cubiste leopardate, spiaggia sovranista con inno nazionale. Visto il successo, inaugurò la svolta ultra-pop, il Beach tour. A riguardarselo oggi viene da chiedersi quale demone l’abbia portato a sprecare in un paio di settimane un patrimonio che sarà anche stato precario, ma diamine, ce ne voleva di follia, o improvvisazione, o chissà che.

Era agosto. Disse solenne a Sabaudia: «Sento la tensione di questo nostro paese». A Polignano replicò il numero, gli regalarono l’ennesima maglietta, da dj. A Pescara, infine, dopo aver evocato i figli, chiese i pieni poteri: «Se devo mettermi in gioco, lo faccio ora, da solo, a testa alta». Interessante ciò che disse allora Meloni: «Va da solo? Ma ‘ndo va?». Aggiunse pensierosa: «Nemmeno alla Dc gli italiani hanno mai concesso la maggioranza assoluta». Qualcuno ricordò che una volta chiesero appunto ad Andreotti cosa avrebbe fatto con i pieni poteri: «Certamente delle sciocchezze» fu la risposta.

Due anni e più di errori: Salvini non ne ha azzeccata una

E qui può finire il film, anche se ci sarebbero altri due anni e più di errori, di frasi e gesti autolesionisti, di velleità incapacitanti, di capricci che segnarono però momenti e passaggi cruciali della vita pubblica, crisi di governo, dispute sanitarie, elezioni del presidente della Repubblica, discussioni di politica estera. Con sereno scrupolo si può dire che Salvini non ne ha azzeccata una. Con scettica meraviglia è lecito pensare che chi vince troppe volte in realtà perde, e i cocci sono suoi.