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Rosella Postorino: un libro per riparare i destini

Questo articolo fa parte del numero di Vanity Fair n.6 in edicola fino al 7 febbraio 2023

Prima di questa, c’è stata un’altra guerra nel cuore dell’Europa. Dieci anni di conflitto nei Paesi della ex Jugoslavia, e una città, Sarajevo, capitale della Bosnia, che per millequattrocentoventicinque giorni (dall’aprile del 1992 al febbraio 1996) è stata sotto assedio e si è trasformata nel più grande poligono di tiro della storia moderna. Nel luglio del 1992 un convoglio umanitario è partito dalla città bosniaca verso l’Italia. A bordo c’erano anche 46 bambini dell’orfanotrofio di Bjelave. Molti di loro verranno dati in affido e poi in adozione nel nostro Paese. Un gesto di aiuto, buono. 

Che però produrrà anche effetti devastanti perché alcuni di quei bambini non erano orfani, solamente poveri, affidati dai loro genitori a quella struttura che garantiva, in una situazione drammatica, un tetto e pasti caldi.

Alcune madri e padri ancora cercano i loro figli, ormai adulti. «Ho letto di questa storia nel 2019», dice la scrittrice Rosella Postorino. «Ho contattato i ragazzi rimasti in Italia, e quelli andati altrove, sono stata a lungo a Sarajevo. Grazie all’attivista Jagoda Savic ho incontrato anche i genitori che hanno perso le tracce dei loro figli. In questa vicenda c’è tutto quello che mi interessa: essere figli, essere madri oppure no, il tema dell’esistere come inconveniente, il diritto di sottrarsi a questa esistenza, e la guerra che esprime la più grande delle contraddizioni: se la vita ha valore perché c’è la guerra?».

E così è nato Mi limitavo ad amare te te (Feltrinelli, pagg. 352, euro 19) e, con il libro, alcuni personaggi indimenticabili: Omar, Nada, Danilo. E le loro madri: presenti, assenti, imperfette, amate.

Nei suoi libri ha raccontato dei bambini che vivono in carcere, delle donne che assaggiavano il cibo per Hitler, e ora degli orfani della guerra nella ex Jugoslavia: è più interessante quello che c’è di quello che si può immaginare?
«La realtà mi è sempre piaciuta più di ogni fantasia, da bambina non amavo le favole con gli animali che parlano e pensano, volevo quelle con gli esseri umani. E nella realtà cerco sempre il filo rosso del danno: mi interessa come si cresce quando avviene un danno originario. Si cresce comunque, e non è detto che ci si perda».

I protagonisti della storia sono in bilico tra due forze: adeguarsi alla nuova vita italiana, recidendo i legami con il passato, oppure tornare indietro, a Sarajevo.
«Danilo corre veloce nella sua nuova vita e non vuole zavorre, Omar non può adeguarsi, perché farlo vorrebbe dire tradire il suo amore originario, quello per sua madre. Che lo ha amato male, ma è comunque il suo imprinting dell’amore. Per Nada non conta dove viva o che vita faccia, contano le relazioni. E quando troverà la relazione significativa, perdonerà tutto».

Nei ragazzi adottati questo tema del «dove stare», soprattutto con il cuore, si pone particolarmente. A volte il passaggio è troppo brusco e difficile da gestire.
«Mari e Matte adottano Omar e suo fratello Sen. Sono profondamente cattolici e, forse, li accolgono nella loro casa proprio per questo, perché ispirati da un senso di carità cristiana. Li portano anche in chiesa, ogni domenica. Ma i due bambini sono musulmani».

Non è un gesto violento?
«Sì, ma fatto con ingenuità, in buona fede. A quanti gesti violenti inconsapevoli siamo esposti anche da parte dei nostri genitori naturali? Prendersi cura di un altro individuo è un gesto potenzialmente violento, l’educazione in sé – nel senso di dire a un’altra persona come si deve comportare – contiene un nodo potenziale di violenza. Si diventa genitori senza pensare se si è capaci di esserlo. Io ci ho riflettuto per 25 anni e infatti non ho fatto figli. La troppa riflessione può generare la paralisi. Nada dice che i figli ti devono venire per caso, e così te li tieni. Ma decidere razionalmente di mettere al mondo qualcuno che poi soffrirà e morirà è troppo. E questa è anche la mia personalissima posizione. Per me è molto più interessante l’adozione».

Rosella Postorino un libro per riparare i destini

In che modo?
«Per me prendersi cura è questo: riparare quel danno che è essere al mondo senza averlo chiesto e, in più, essere anche stato abbandonato. Questa è la mia idea di maternità, una scelta che si può fare sempre, a dispetto dell’orologio biologico. A un certo punto mi sentirò pronta a consegnare a qualcuno quello che ho imparato dopo vent’anni di analisi, dopo tutto quello che ho letto, dopo i libri che ho scritto e tutte le riflessioni fatte». 

Come capirà che è pronta?
«Sia quando sono entrata nell’orfanotrofio di Sarajevo sia quando ho fatto volontariato con i bambini di Rebibbia, ho sentito di dover fare qualcosa. In carcere il sabato si stava tutti insieme e poi la domenica potevi portare un bambino a casa tua. Così nel mio appartamento c’erano dei giocattoli, il triciclo, il sedile dell’auto. Come se nella mia vita ci fosse un bambino. Che in effetti c’era, ma non viveva lì. Non so se mi piacerebbe adottare un figlio per giocare al grande gioco della famiglia – che non è un gioco, ma anche un po’ lo è, perché modi per stare al mondo li dobbiamo trovare – ma so che vorrei sapere che, incrociando la vita di qualcuno, in maniera anche piccola sono stata significativa, gli ho dato una possibilità».