Italy
This article was added by the user . TheWorldNews is not responsible for the content of the platform.

Uomini, donne e fanciulli al servizio della guerra: i lavoratori militarizzati in Trentino. Fontana: "Vissero come i soldati al fronte"

TRENTO. Se provassimo a calarci nel contesto del fronte trentino-tirolese durante la Grande Guerra, ci troveremmo in mezzo ai soldati accucciati nelle trincee e nelle caverne, in valle e in montagna, o lanciati in attacchi sanguinosi e spesso inutili contro la linea nemica. In un luogo completamente stravolto dal conflitto, in cui i civili erano stati per lo più costretti al profugato (QUI un approfondimento), a muoversi però c’erano anche altri soggetti. Tra questi, i lavoratori e le lavoratrici militarizzati. Ma di chi si trattava?

Per lavoratori militarizzati si intendono dei reparti organizzati militarmente di lavoratori, impiegati nella costruzione di opere militari, dalle trincee agli sbarramenti, o in servizi come il disboscamento delle piante e la lavanderia”, spiega lo storico e archivista del Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto Nicola Fontana, autore di un saggio sul tema contenuto nell’opera collettanea Cronache della guerra in casa. Scritture dal Trentino e dal Tirolo 1914-1918.

“Dotati di una fascia al braccio, soggetti alla giurisdizione militare, questi lavoratori raggiunsero un numero di circa 40mila unità nel 1916. Le cifre che abbiamo non sono sicure, ma sappiamo che successivamente, con l’andare avanti del conflitto, il loro numero diminuì. Si stima che nel 1918 fossero poco più della metà”.

Se nella fase precedente alla guerra – visti anche gli avvicendamenti territoriali, ben antecedenti, del periodo risorgimentale – il Trentino era stato dotato da parte del Genio austro-ungarico di numerose opere di fortificazione (QUI un approfondimento), a cui lavorarono migliaia di operai regolari, una volta scoppiata si rese necessario procedere alla preparazione del terreno in vista di un eventuale scontro con l’Italia. Cominciato il conflitto con la Russia e la Serbia, infatti, Vienna comprese la necessità di predisporsi anche al possibile attacco da Sud: già dall’estate del 1914, così, si diede vita a “reparti” di lavoratori per approntare delle opere militari.

“Quando parliamo di militarizzazione – continua Fontana – ci riferiamo all’inquadramento dei reparti e alla loro organizzazione militare. Così avvenne anche per i lavoratori e le lavoratrici, ma non da subito. Dallo scoppio della guerra, nell’estate del ’14, all’entrata in guerra dell’Italia, nel maggio del ’15, i reparti di lavoratori erano per lo più composti da volontari dotati di un contratto regolare e di una buona paga”.

“Dalle fonti, addirittura, abbiamo notizia che questa paga elevata finisse per attrarre anche i più giovani. Ci sono ad esempio lagnanze degli intendenti scolastici riguardo a minori che abbandonano le classi per andare a lavorare alle trincee. È con lo scoppio del conflitto con l’Italia, però, che la situazione va cambiando, peggiorando ci dicono le fonti, le memorie come le carte dei processi dei tribunali militari”.

Perché? Prosegue Fontana: “A cambiare la situazione fu la leva, che portò numerosi lavoratori a vestire la divisa e a partire per il fronte. Si rese così necessario fare ricorso alla coercizione e così fecero le autorità militari, sfruttando la legge per la prestazione di guerra del 1912. È in questa seconda fase, dunque, che assistiamo alla militarizzazione, già comunque impostata, in parte. I reparti vengono organizzati militarmente, in alcuni casi addirittura armati. Le paghe calano e le condizioni peggiorano. Utilizzati anche in zone di fronte, quei lavoratori finirono per vivere così gli stessi rischi dei soldati”.

Dalle memorie, questo deterioramento delle condizioni emerge con forza. Gli uomini impiegati per lo scavo di trincee, la costruzione di baracche, il trasporto materiali o lo sgombero neve, come le donne nelle retrovie, in lavanderia o in officina, vivono in un contesto pieno di pericoli. Pericoli legati alla guerra o alla natura. “Ne parla ad esempio il lavisano Luigi Speranza, che nel suo diario racconta dei molti lavoratori vittime delle valanghe sul Col Santo. I lavoratori vivevano gli stessi rischi di chi stava in trincea, per la vicinanza al fronte o le incognite della montagna”.

Provenienti dallo stesso territorio trentino o dal resto del Tirolo, lavoratori e lavoratrici militarizzati condividevano spazi e mansioni anche con altri soggetti. “Le autorità militari cercarono di reclutare da tutti i territori della monarchia. E così troviamo in questi reparti anche profughi galiziani, non solo trentini o tirolesi in generale. Vi sono poi i prigionieri militari, serbi e russi in particolare, con cui spesso quei lavoratori si trovarono a condividere le mansioni. I soldati nemici catturati, nondimeno, venivano usati per lo più nella costruzione delle strade o nelle campagne, inquadrati nei cosiddetti ‘Anbau-Abteilungen’ (i ‘reparti di coltivazione’, ndr)”.

Costretti a una vita di privazioni, i lavoratori e le lavoratrici militarizzati venivano spostati lungo il fronte, inviati laddove si necessitava un loro intervento. “Dal Tonale alla Valsugana, questi reparti venivano spostati a seconda delle necessità. Le loro condizioni, come detto, erano nondimeno sempre peggiori. Lo vediamo nelle fonti militari, con processi intentati contro soggetti che si lamentavano di paghe sempre più basse, equiparate a quelle dei soldati”, conclude.