Il caso Faggin ha mostrato il lato malato della società moderna

Il caso di Riccardo Faggin ci ha mostrato il lato peggiore della società moderna, basato troppo sull’apparenza e poco sulla sostanza, troppo sul dover per forza “raggiungere degli obiettivi prefissati da altri”, troppo sul terrore di deludere le aspettative altrui. Abbiamo imparato qualcosa da questa faccenda? Chi lo sa, fatto sta che questo potrebbe essere il primo tassello per poter finalmente costruire un puzzle fatto di soddisfazione personale reale e non di mera accondiscendenza verso aspettative non nostre.

Società – Nanopress

Cosa ci ha insegnato il caso di Riccardo Faggin? Tante cose che però avremmo già dovuto sapere. Ed è questo il problema: perché siamo arrivati in qui? Come possiamo rompere i paradigmi creati dalla società odierna? Possiamo cambiare il modo di pensare della gente?

Gli standard imposti dalla società

La società odierna impone standard troppo difficili da seguire. Questo riguarda l’aspetto fisico – vedi adolescenti che arrivano a diventare anoressiche per assomigliare alle foto (fake) che vedono sui social – ma anche la necessità di accasarsi entro una certa età, laurearsi entro una certa età, realizzarsi entro una certa età.

Ecco, su questa “certa età” vale la pena soffermarsi. Chi ha scritto una vademecum della vita perfetta? Nessuno. Solo che, ricapitolando, per vivere una vita felice tutti dovremmo (facendo una media): laurearci entro i 24-25 anni, sposarci entro i 30, fare subito un figlio (perché altrimenti l’orologio biologico potrebbe ticchettare troppo nelle nostre orecchie, soprattutto se siamo donne ovviamente, perché agli uomini madre natura ha dato la possibilità di farli anche a 60 anni), trovare il lavoro dei nostri sogni possibilmente prima di sposarci (altrimenti come manteniamo i figli, la casa, paghiamo le bollette?).

In sostanza, la vita dovrebbe rinnovarsi continuamente e poi “fermarsi” intorno ai 30-35 anni (volendo esagerare), perché quella è l’età in cui dovresti già avere casa, marito/moglie, figli, lavoro. E quindi ormai a quell’età dovresti vedere già tutti i tuoi sogni concretizzati davanti ai tuoi occhi. Ma se non fosse così? Se qualcuno avesse desideri, aspettative, necessità diverse dalla massa? Si sentirebbe fuori luogo, fuori posto, fuori contesto, questa è la verità. Alzi la mano chi ha 30 anni, è single e non si è sentito dire almeno una volta alle cene di famiglia: “E il fidanzatino? E quando ti sposi? E perché non ti muovi a fare un figlio, che poi potrebbe essere troppo tardi?”. Sì, in famiglia, perché è da lì che parte tutto, anche se poi le stesse domande ce le può fare tranquillamente anche il conoscente che vediamo dopo anni in giro.

Una piccola parentesi è necessaria, però. Avevamo davvero bisogno di assistere alla storia della 23enne – al secolo Carlotta Rossignoli – laureata in medicina in 5 anni, durante i quali aveva lavorato, fatto continui tripli salti mortali carpiati, camminato sul filo del rasoio come un’equilibrista ogni giorno (salvo poi scoprire che gran parte del racconto era falso)? No. Potevamo davvero farne a meno e soprattutto potevamo fare a meno sicuramente del racconto infiocchettato dalla stampa della ragazza prodigio di 23 anni quasi medico, lavoratrice, stupenda. Anche se fosse stato tutto vero – cosa che, ribadiamo, non era – non sarebbe comunque stato il caso di far passare questa storia come il massimo a cui si possa ambire, perché no, non lo era affatto e anzi ha solo contribuito a far sentire indietro tutte le persone che non hanno raggiunto il suo stesso traguardo nel suo stesso tempo.

Il problema quindi è proprio questo: guardano tutti i traguardi raggiunti come se fosse una lista della spesa da spuntare, ma quasi nessuno è interessato a capire anche come ci sentiamo, come stiamo davvero, di cosa abbiamo bisogno per stare bene al 100%.

Eppure quello che fa rabbia è che restando sul racconto della vita perfetta, vediamo subito che ci sono troppe falle. In primis chi ha stabilito l’età giusta per fare le cose? La società? I nostri genitori? I nostri antenati? Peccato che la società non conosce i nostri desideri, i nostri genitori verosimilmente sono nati in un’epoca del tutto diversa rispetto alla nostra, i nostri antenati idem al cubo. In secondo luogo, chi ha deciso che la ricetta della felicità debba contenere sempre gli stessi ingredienti per tutti? C’è chi – e sì, questo riguarda anche le donne – decide di sentirsi completo, appagato, felice anche senza figli. Chi decide coscientemente di non voler lavorare e di volersi dedicare alla famiglia e sta bene così. Chi inizia a lavorare tardissimo, per necessità, volontà, oppure semplicemente perché nella vita non tutto va sempre come vuoi (vedi Annamaria Bernardini Di Pace, l’avvocatessa più famosa di Italia, che ha iniziato a lavorare a 35 anni e oggi è conosciuta in tutto il Paese ed è la più richiesta anche dai Vip).

Eppure chiunque decida di uscire dal tipico schema laurea-lavoro-famiglia alla fine si sente sempre inadeguato, perché inevitabilmente tende a scontrarsi con l’idea radicata nella società che lo circonda, spesso si trova a dover affrontare gli sguardi contrariati della gente, oppure ad essere giudicato male dalla sua stessa famiglia. Forse dovremmo iniziare a raccontare più spesso storie anche di vittorie diverse da quelle che ci si aspetta, di persone che non hanno seguito un iter convenzionale e che sono comunque piene di sé (nel senso buono del termine), soddisfatte, realizzate.

Perché facciamo passare la 24enne che ha appena avuto un figlio come madre, mentre la 45enne che ha fatto praticamente la stessa cosa come “madre troppo matura”? Il problema è la narrazione forse e questo dovremmo comprenderlo in primis noi giornalisti. Forse solo così potremmo lanciare un messaggio concreto alla gente, urlando loro: “Tranquilli se non siete ragazzi prodigio, se a 35 anni siete nubili/celibi, se a 40 anni non avete ancora figli, non siete sbagliati, siete nel vostro tempo, che non deve combaciare per forza con quello altrui, pensate solo a ciò che vi fa stare bene, siate felici, siate in pace in primis con voi stessi e poi con il mondo che vi circonda, prendetevi cura di voi, che se non lo fate voi, nessuno potrà farlo al vostro posto”. 

Cerchiamo di immaginare che ognuno stia viaggiando su un’auto. Ognuno quindi può decidere a quale velocità andare: se ne sceglie una troppo forte per i suoi canoni, il rischio è di sbandare, fare un incidente, farsi male davvero irrimediabilmente. Ecco, questo può essere un modo sano di vedere la società: ogni “vettura” dovrebbe viaggiare alla sua velocità, senza guardare neanche quella altrui, che altrimenti il rischio è quello di distrarsi dal proprio percorso e fare comunque un incidente.

Laurea – Nanopress

Quando parliamo di questo tema negli ultimi giorni la nostra mente non può non andare a Riccardo Faggin, il 26enne morto dopo aver inseguito per tutta la vita un sogno che non era nemmeno il suo probabilmente.

La storia di Riccardo Faggin ci ha dato un grande insegnamento

Che Riccardo Faggin abbia causato di proposito la sua morte oppure no, per adesso almeno, non ci è dato saperlo. Ma che avesse l’armadio pieno di scheletri lo sappiamo tutti ormai. Su di lui sono stati scritti articoli, approfondimenti, editoriali. Di lui hanno parlato davvero tutti in Italia, a partire dai giornali, le radio, le tv. Eppure quasi nessuno è riuscito ad immedesimarsi in lui, ma quasi tutti hanno romanzato la sua storia, rendendola, come ha scritto letteralmente Aestetica Sovietica, quasi un romanzo di Flaubert, quando in realtà è solo un pezzo di vita – drammatica – vissuta, cosa che lo rende di gran lunga più tragico di una storia scritta.

29 novembre 2022. Quella sera Riccardo avrebbe dovuto celebrare la sua festa di laurea al ristorante Peraretto, definito da Repubblica un “agriturismo nella quiete gentile dei Colli Euganei”. Era tutto pronto, la location era stata già bloccata, le persone invitate. Le persone, sì, le stesse che non avevano mai compreso il disagio del giovane 26enne, perché avevano guardato più ai risultati ottenuti che al percorso che stava seguendo per arrivarci.

Poi la sera prima, a meno di 24 ore dalla “messinscena organizzata”, lo scontro con un platano, senza nessun segno di frenata, un “dettaglio che parla”, come continua a definire sempre la Repubblica. Parla, ma a quanto pare non a voce abbastanza alta se comunque la procura ha sentito l’esigenza di continuare a svolgere le sue indagini. Sarà stato davvero un incidente, oppure la sua volontà era quella di togliersi la vita? Questa è una domanda che da giorni ormai alberga costante nella mente dei genitori del ragazzo, oggi distrutti dal dolore per un duplice motivo: da un lato, infatti, dovranno affrontare la perdita di un figlio, dall’altro il senso di colpa per non aver compreso a fondo il suo malessere, celato a quanto pare per anni.

“Gli chiedevamo notizie sugli esami che stava facendo, gli dicevamo di andare di fretta”: con queste parole la madre di Riccardo, Luisa Cesaron, ha raccontato gli ultimi anni di vita del figlio e le sue affermazioni meritano una spiegazione dettagliata una ad una, senza però voler giudicare il suo operato come madre, perché – chiariamolo una volta e per tutte – anche i genitori sono essere umani in primis ed in quanto tali possono commettere errori esattamente come i figli e non per questo devono essere condannati a morte (fermo restando che perdere un figlio così è già di per sé una condanna).

“Lo vedevamo un po’ fermo. Lo riprendevamo perché si muovesse con questa benedetta laurea. Forse, però, l’abbiamo aggredito troppo”. Questo non appare strano ad una prima lettura: quanti genitori spronano i figli a fare di più? Finché questo resta “sano”, non c’è nulla di male, anzi. Ma qui si apre la prima crepa: la laurea non è un traguardo necessario, non tutti dobbiamo frequentare l’università e non tutti dobbiamo farlo a pieni voti. Punto. Ognuno deve seguire la sua strada e basta. Ma la colpa, anche in questo caso, è della società, che ha imposto ai genitori l’idea che il figlio dovesse laurearsi in regola e su questo c’è poco da dire.

“Ci eravamo accorti che non si dava da fare ma adesso, di fronte a questo baratro, mi chiedo: quanto ha sofferto mio figlio?”. Quanto soffrono i 20enne-25enni che sono costretti a percorrere una via che avrebbero fatto volentieri a meno di seguire? Quanto è frustrante vivere per accontentare gli altri? E, soprattutto, quanto è drammatico immaginare un 26enne alle prese con i suoi mostri interiori, costretto a combatterli da solo, perché nessuno intorno a lui si era accorto della sua battaglia?

“Lui non voleva deludere noi”. Sì, perché noi tutti almeno una volta nella vita abbiamo avuto paura di deludere la nostra famiglia, le persone che ci circondano, ma abbiamo anche avuto il terrore di affrontare lo sguardo desolato della gente che sa che tu non stai facendo quello che “dovresti” fare.

“Se solo ce lo avesse detto, avremmo provato ad aiutarlo. Non l’avremmo punito. Forse avremmo litigato, ma poi saremmo andati avanti dandogli una pacca sulla spalla”. E qui si apre un altro problema: il dialogo. Parlare a volte ci salva la vita. Tirare tutto fuori, vomitare quello che abbiamo dentro, sfogarci, spesso è il primo passo per risorgere, ripartire da zero, ricominciare a vivere. “Tirate fuori ciò che avete dentro, altrimenti si creano muri impossibili da scavalcare”, ha detto la madre di Riccardo ed infatti chissà cosa sarebbe accaduto se Riccardo si fosse confidato con qualcuno. Solo che non lo sapremo mai e non lo sapranno mai neanche lei e il marito, costretti a vivere in eterno con il rimorso di non aver compreso il figlio.

Si poteva evitare questa ennesima tragedia (che si aggiunge alla lunga lista di casi analoghi che volutamente non citiamo)? Probabilmente se avessimo vissuto in un’altra era sì. Forse viviamo semplicemente in un’epoca sbagliata, forse è il mondo che ci circonda ad essere ormai marcio e forse questo “lercio” ormai ha invaso tutti. Ma se non iniziamo noi stessi a cambiare il nostro pensiero, nulla si smuoverà mai, questo è certo.

Quindi se stai leggendo questo articolo e ti sei sentito sbagliato almeno una volta nella vita, sappi che non sei il solo e che magari iniziando a parlarne puoi contribuire a rompere il muro del silenzio ormai divenuto troppo alto per essere valicato. C’è sempre una via di uscita. Sempre.


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