Le città dell'utopia in Italia, quando il sogno divenne realtà

Campomaggiore (Potenza). Dal feudo alla città dell'armonia e del lavoro (1741-1885)

Attorno al piccolo borgo agricolo di Campomaggiore adagiato sulle alture della Lucania, arrivò il vento delle riforme settecentesche e con esso il sogno dell’utopia. Feudo della famiglia dei conti Rendina, i nobili beneventani lo avevano ottenuto in concessione da Filippo IV di Spagna alla metà del Seicento. Da allora il borgo giaceva semi-abbandonato e sostanzialmente spopolato, ed i pochi coloni che lo abitavano erano dediti ad un’agricoltura che più che arretrata appariva quasi primitiva e ferma nei secoli, nella cornice di un Regno di Napoli dove i nobili e la Chiesa esercitavano ancora diritti feudali quali la servitù della gleba. La svolta per il paese addormentato dalla storia del Sud arrivò alla metà del secolo dei Lumi, con le riforme portate sotto il regno di Carlo di Borbone e dal ministro Bernardo Tanucci. Anche se Campomaggiore era lontana geograficamente dai palazzi di Napoli che videro l’opera di Pietro Giannone e Gaetano Filangieri, l’influenza dei lumi e dell’idea del bene comune in una società rinnovata arrivò, assieme all’abolizione di molti privilegi secolari del Clero, anche nel piccolo borgo lucano per tramite dei signori che lo possedevano. Fondato come comune autonomo nel 1741, fu interessato dall’opera di ripopolamento voluta dal conte Pasquale Rendina, il primo ad applicare l’idea della lottizzazione delle terre da affidare in concessione ai contadini assieme ad un miglioramento delle condizioni abitative fino ad allora caratterizzate da una endemica miseria. Don Pasquale, dopo aver battezzato il paese «Campomaggiore Nuova», stilò con atto notarile i termini delle concessioni ai coloni che prevedevano la fornitura di pollame e prodotti come affitto al signore, in cambio dell’affidamento del lotto che per la prima volta nella storia del regno borbonico prevedeva l’ereditarietà e non il ritorno al proprietario alla morte del concessionario. Su queste basi già di per sé rivoluzionarie in quella terra socialmente depressa e immota il nipote di Pasquale, Teodoro Rendina, proseguì l’opera di ripopolamento aggiungendo al progetto l’essenza utopistica e sperimentale di quello che sarebbe stata Campomaggiore per più di un secolo a seguire. Il conte lucano era figlio delle riforme e soprattutto aveva studiato al collegio dei Tolomei a Siena, dove era venuto in contatto con una realtà agricola e sociale molto più avanzata, quella della Toscana di Pietro Leopoldo. Frustrato dall’abisso tra la situazione vista nel Granducato e la depressione della Lucania, cercò in Campomaggiore il riscatto e il sogno di una società contadina che avrebbe dovuto crescere non soltanto da un punto di vista agricolo, ma anche nella ricerca di una condizione di vita migliore nell’ambiente di lavoro. Questo progetto, unico nel contesto del regno borbonico, avrebbe potuto realizzarsi soltanto con una trasformazione radicale dell’ambiente, della collettività e dell’idea di inurbamento pianificato come tramite tangibile di un’idea progressiva. A corte Teodoro aveva conosciuto l’architetto Giovanni Patturelli, un allievo di Vanvitelli che oltre ai grandi progetti per la nobiltà partenopea, aveva partecipato alla realizzazione della Reggia di Caserta. Il conte lo scelse per realizzare il progetto dell’utopia agropastorale di Campomaggiore. L’architetto di corte scelse per il borgo una pianta ordinata e regolare, rotta soltanto dalla presenza di una piazza centrale, un «forum» epicentro della vita della comunità. Attorno all’abitato, per la prima volta, comparvero gli edifici adibiti ai servizi collettivi che avrebbero permesso al borgo una futura totale autosufficienza in termini economici. Furono costruiti un mulino, una chiesa, un ricovero comune per il bestiame e addirittura una masseria con un laboratorio per la produzione del vino. Alle strutture dedicate ai servizi comunitari era strettamente legata la riforma agraria pensata da Teodoro Rendina. Il terreno attorno a Campomaggiore era potenzialmente molto fertile, anche per la presenza di corsi d’acqua per i quali il progetto previde la realizzazione di una rete idraulica a supporto dell’introduzione di nuove e redditizie coltivazioni come la vite, gli alberi da frutta e l’ulivo che venne direttamente dagli esperti contattati da Teodoro in Puglia. Per quanto riguardava invece la rivoluzione abitativa dei coloni, Patturelli pensò a piccole ma solide abitazioni con un piccolo appezzamento di competenza. Non essendo possibile, naturalmente, per gli assegnatari provvedere al pagamento dei materiali per la costruzione, Teodoro Rendina pensò con secoli di anticipo ad un’idea di finanziamento a lungo termine a favore degli occupanti, sia in termini di denaro che di materiali. Alla fine del secolo l’utopia non fu più tale, ma una realtà tangibile tanto che la popolazione di Campomaggiore giunse a superare i 1.000 abitanti e nel 1811 quando diventò Comune ne contava oltre 1.300. Teodoro, che seguì i lavori personalmente durante tutto il periodo di edificazione, si spense il 24 maggio 1833. A lui subentrarono i figli Francesco Saverio e Giuseppe i quali proseguirono l’ampliamento del comune dei sogni, gioiello ereditario della famiglia Rendina. Entrambi celibi, alla loro morte lasciarono il progetto nelle mani del nipote Gioacchino Cutinelli Rendina, cresciuto a Napoli durante il periodo dei moti rivoluzionari della prima metà del secolo XIX. Avendo preso parte attiva a quelli del 1849, il conte lucano fu ostracizzato dalla corte borbonica e si ritirò a Campomaggiore, dove fu protagonista dell’ultima rivoluzione del borgo ideale. Fu grazie ai suoi uffici che a Campomaggiore fu collegata una strada carrozzabile che conduceva nei pressi della nuova linea ferroviaria. L’evoluzione tecnologica portata negli anni a cavallo tra la fine del Regno di Napoli e il nuovo Stato unitario parvero offrire a Campomaggiore una grande opportunità economica grazie alla disponibilità di prodotti alimentari esportabili grazie alle riforme del secolo precedente. Ma come è nella natura dei sogni anche le utopie, che ne condividono l’essenza, sono destinate a terminare. Per Campomaggiore il risveglio fu dei più traumatici, causato dalle forze della natura. Il 10 febbraio 1885 una devastante frana cancellò quasi totalmente l’abitato di Campomaggiore, salvando solo una piccola parte degli edifici e causando lo sfollamento definitivo della popolazione, che darà vita più tardi a una nuova Campomaggiore lontana dal dissesto geologico ma anche dal sogno dei Rendina. Gioacchino, l’ultimo dei conti dell’utopia, morì al termine dello stesso anno della catastrofe sulla strada in vista delle rovine, per le conseguenze di una caduta da cavallo.

Tra il giardino e la fabbrica: il caso del Villaggio Solvay di Rosignano (Livorno)

Non lontano dal luogo dove Teodoro Rendina aveva cullato l’utopia di Campomaggiore durante gli studi senesi, vide la luce un altro insediamento urbano frutto di una filosofia del tempo, quella del positivismo reso tangibile dall’opera del paternalismo nato con la grande borghesia nata con la rivoluzione industriale. Siamo sul litorale tirrenico, in provincia di Livorno. Zona un tempo paludosa e infestata dalla piaga della malaria, recuperata dalla bonifica realizzata dal Granduca Leopoldo II a partire dal 1828. L’area a ridosso dell’abitato di Castiglioncello fu individuata come ideale per la costruzione di un grande stabilimento di derivati sodici dalla società belga Solvay per la presenza di riserve di sale, corsi d’acqua e una rete stradale e ferroviaria già sviluppata negli anni Dieci del XX secolo, alla fine della seconda rivoluzione industriale e all’alba della Grande Guerra. I mastodontici impianti per la produzione dei derivati sodici, realizzazione del sogno di Ernst Solvay che si tradusse nella produzione industriale dei suoi brevetti chimici, erano destinati ad attrarre migliaia di operai e impiegati in quelle terre contadine propaggine settentrionale della Maremma. Permeato dalle idee positiviste figlie del secolo precedente, Solvay pensò alla zona di Rosignano per mettere in atto l’armonia tra le maestranze e la fabbrica, creando un continuum che avrebbe potuto lenire l’alienazione del lavoro con un ambiente armonico sia dal punto di vista abitativo che da quello della vita collettiva dei dipendenti. Le basi teoriche videro la realizzazione pratica in quello che diventerà un vero e proprio monumento all’archeologia industriale italiana, il Villaggio Solvay di Rosignano, un luogo talmente trasformato dall’arrivo dell’industria che cambierà il proprio nome in Rosignano Solvay.


Il progetto del villaggio fu affidato ad un maestro del liberty belga, l’architetto Jules Bruefaut, che in patria aveva lasciato il segno sulle facciate di molti edifici monumentali dell’epoca. Il nucleo centrale dell’innovazione nel villaggio Solvay risiedeva nell’inedito rapporto tra architettura e natura, un aspetto che lo differenziava da tutti gli altri insediamenti industriali dell’Europa industrializzata. La presenza ininterrotta di lunghi viali alberati sui quali confluivano le strade secondarie caratterizzate da abitazioni con rigogliosi giardini e vegetazione mediterranea aveva la funzione di far sembrare il gigante-fabbrica lontano. Anche le unità abitative ricercavano l’armonia nella natura grazie all’aspetto standardizzato e non invasivo, divise rigidamente per tipologia assegnata alla funzione svolta dall’occupante-dipendente. Bruefaut lavorò a ben 9 diverse strutture di fabbricati, destinate a tutti gli inquadramenti della Solvay: dal direttore di stabilimento all’operaio. Le casette delle maestranze erano fabbricati di due piani divisi in quattro appartamenti e dotati di un piccolo terreno di pertinenza dove le famiglie operaie avrebbero potuto coltivare un orto privato. Il sogno di Rosignano, al di là dell’aspetto urbanistico-architettonico, era un contenitore che avrebbe completato l’armonizzazione già sperimentata con una serie di riforme in senso assistenziale-sociale molto avanzate per il panorama italiano. Già dal 1889 infatti, la Solvay aveva varato la giornata lavorativa di 8 ore per tutti i dipendenti, le ferie retribuite, l’indennità di malattia e la cassa pensionistica. Il villaggio avrebbe così contribuito all’alleanza tra la proprietà ed i salariati, scongiurando la conflittualità sociale che aveva rappresentato una piaga negli anni della seconda rivoluzione industriale tra Ottocento e Novecento. Il sogno dell’utopia e dell’armonia fu così forte che neppure la Grande Guerra riuscì a cancellarlo. Le prime case e le strade del Villaggio Solvay furono pronte nel 1919, dopo che lo stabilimento entrò in funzione quando al guerra ancora devastava l’Europa. La costruzione, durata 10 anni fino al 1929, spinse l’area sotto l’Aurelia e verso il mare dove sorsero le casette operaie. Alla costruzione delle unità abitative si affiancò un grande progetto che riguardava le strutture ricreative e collettive del villaggio. Non soltanto servizi essenziali, ma una concentrazione di zone adibite a funzioni specialistiche che fecero di Rosignano Solvay un mondo autosufficiente. Furono impiantate le scuole professionali per la formazione dei figli dei dipendenti, un cinema-teatro che negli anni ospitò le più importanti compagnie dell’epoca e un ospedale tra i più moderni d’Italia. Durante il ventennio fascista, dopo la legge che vietava l’esportazione e l’investimento del capitale estero al di fuori del Paese, il Villaggio Solvay visse una seconda stagione sotto la direzione degli architetti italiani. Fu Italo Gamberini, docente di architettura a Firenze ed esponente del razionalismo a completare l’utopia di Rosignano. Tra il 1939 e il 1940 le opere riguardarono la zona litoranea, con la realizzazione dello stabilimento balneare riservato ai dipendenti (e diviso ancora rigidamente tra operai e impiegati da una rete di due metri di altezza) al quale fu collegato il circolo canottieri. Quest’ultimo fu inaugurato dalla principessa Maria José, che prima della cerimonia volle fare visita ad una famiglia presentandosi senza preavviso nella casa di un operaio di idee socialiste, con l’abito appositamente confezionato per richiamare i tendoni in stile marina del circolo che avrebbe di lì a poco tenuto a battesimo. Il villaggio agrario invece, sempre frutto della matita di Gamberini e dei suoi assistenti non fu mai completato a causa dello scoppio della guerra. Lo stabilimento Solvay di Rosignano entrò subito nella lista dei siti industriali da colpire e già il 17 giugno 1940 fu colpito da una delle prime incursioni dell’aviazione francese anche per la vicinanza in linea d’aria con la Corsica e la costa meridionale della Francia. Il villaggio Solvay riuscirà a sopravvivere anche ai devastanti bombardamenti alleati del 1944 e ancora oggi rimane come parte consistente del comune che porta il nome di quell’imprenditore che trovò negli affari la possibilità di realizzare il grande sogno di una città a misura di uomo, in grado di conciliare il lavoro e le esigenze della vita privata e collettiva dei dipendenti.

Il sogno discreto dell'utopia durante il fascismo: Tresigallo (Ferrara)

Non c’erano grandi fabbriche, né famiglie nobili e neppure grandi fondi agrari a Tresigallo, un piccolo borgo a metà strada tra Ferrara e i Lidi di Comacchio. Nonostante ciò, fu il fulcro di un altro esperimento urbanistico e sociale pensato per dare forma alla «città ideale». La piccola frazione emiliana si risvegliò improvvisamente negli anni Trenta dopo lunghi secoli in cui la scansione del tempo fu unicamente segnata dal susseguirsi delle stagioni e del lavoro nei campi. Durante questo lungo sonno agreste diede i natali a una delle figure di maggior spicco del ventennio fascista, Edmondo Rossoni. Sindacalista rivoluzionario come il primo Mussolini, giornalista come il futuro capo del fascismo e politico, fu chiamato a ricoprire cariche sempre più importanti sino a divenire prima Sottosegretario e quindi ministro delle Politiche agricole e Forestali nel 1935. Rossoni, tra i massimi esponenti e teorici del corporativismo sindacale e membro del Gran consiglio del fascismo era un «ras» dall’indole contrapposta al «vicino di casa» Roberto Farinacci, cremonese e massimo esponente dello squadrismo oltranzista. Il ministro Rossoni sognava, negli anni della crescita consensuale al governo, una società nuova basata sull’alleanza dello spirito e del lavoro. Era un’alleanza che avrebbe dovuto, sotto la guida delle istituzioni nate dalla rivoluzione fascista, compiersi dal basso e che avrebbe anch’essa portato a quello che è il fine ultimo di ogni utopia: l’armonia tra il datore di lavoro (che nel fascismo si identificava con lo Stato o con le istituzioni corporative) e l’«homo novus» che avrebbe sostenuto i successi dell’italia proletaria guidata dal Duce. Il progetto nato alla fine degli anni Venti per la «Nuova Tresigallo» non deve tuttavia trarre in inganno, in quanto la sua essenza fu molto diversa da quella delle tante «città di fondazione» inaugurate durante il ventennio. Tresigallo, la città dell’armonia fascista, doveva nascere e sarebbe nata lontano dai riflettori di quel «arma più forte» che il regime elevò a strumento fondamentale durante la fase di normalizzazione. Come paradigma del pensiero di Rossoni permeato dall’egualitarismo di stampo vetero-socialista, il cantiere doveva essere magmatico e rappresentare un’ opportunità per i giovani architetti nati sotto la scuola del razionalismo per poter esprimere il proprio talento, che si tradurrà negli ultimi anni del regime nella prolifica corrente modernista. Tresigallo Nuova fu la culla di tutte queste tensioni artistiche e sociali, affidata alle idee di professionisti che si affermeranno come grandi interpreti anche nel secondo dopoguerra. Lontani dagli echi di gloria di Pagano o Terragni, le idee del giovane Carlo Frighi, tresigallese al quale Rossoni pagò gli studi di architettura, presero forma nel progetto di una città dagli spazi completamente ridisegnati e dalle forme che dall’eterogeneità dei singoli edifici rendeva l’impressione finale di un unicum che centrava l’obiettivo: l’armonia delle forme e degli spazi. Ogni facciata, all’insegna di una semplicità estetica data dall’uso profuso del finto marmo che richiamava tuttavia una peculiarità per ognuno dei pezzi che componevano un quadro complessivo simile alle forme espresse dalle tele di De Chirico. Per quanto riguardava la concezione degli spazi comuni, la città ideale nel cuore della pianura emiliana, gli edifici di Tresigallo erano una declinazione dei punti cardine toccati dalla storia del ventennio. Lo sport, base della gioventù fascista, era rappresentato dall’arco colonnato sormontato dalla scritta «campo sportivo», il Concordato dalla chiesa dalla facciata caratterizzata dalle linee essenziali. Alla casa del Fascio si alternava la Casa Balilla (dopo il restauro del 2010 Casa della Cultura) e tra edifici più leggeri come il «Bar Roma», paradigma del ritrovo tipico dei lavoratori italiani, e un portico dalla forma prospettica che richiamava la pittura metafisica, si stagliava un edificio che porta oggi nel nome l’essenza del progetto di Tresigallo: quella del sogno. Anche se la scritta oggi visibile non è originale (l’edificio era sussidiario della casa Gil - Gioventù Italiana del Littorio e portava la scritta Bagni) oggi sull’edificio in color lilla campeggia il simbolo dell’utopia, l’insegna dei «sogni». Tresigallo, concepita urbanisticamente come un’antica civitas romana lungo l’asse monumentale di viale Roma rotto solamente dalla ex piazza centrale della Rivoluzione (oggi della Repubblica), sopravvisse alla guerra ma dovette scontare decenni di abbandono prima del recente restauro. Edmondo Rossoni, firmatario dell’ordine del giorno Grandi, scampò alla condanna a morte prima della Rsi e poi del Cln dopo essere fuggito in Canada vestito da prete. Tornerà in Italia dopo l’amnistia Togliatti ma, come già detto in precedenza, a Tresigallo non trovò che l’ombra del lungo sogno di di una città nuova, svanito tra le macerie della guerra.

Le rovine di Campomaggiore rimaste dopo la frana del 1885 (IStock)


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