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Bombe anonime sul Nord Stream, sulla pace in Ucraina, sull'economia europea

Un atto deliberato di terrorismo. È il timore dei mercati e delle cancellerie europee, che s’interrogano sul perché – e soprattutto sul come – siano potuti verificarsi dei danni concomitanti a tre diverse linee dei gasdotti Nord Stream 1 e del suo raddoppio Nord Stream 2, intorno all’isola danese di Bornholm, nel mare del Baltico.

Niente panico: nessuno dei due gasdotti è attualmente in funzione, anche se entrambi contengono ancora percentuali di gas intrappolate nei tubi. Nord Stream 1, in particolare, è fermo da agosto, quando Mosca ha chiuso i rubinetti ufficialmente «per opere di manutenzione». Anche se - ormai lo sanno pure i pesci - entrambi i gasdotti sono al centro del braccio di ferro nella guerra energetica che si combatte tra Mosca e l’Europa dal giorno in cui è iniziata la cosiddetta «operazione speciale» russa in Ucraina.

Vale la pena sottolineare da subito come, di là dalle cause, al momento questo danno non sembra prefigurare rischi ambientali e non influirà immediatamente sulla fornitura di gas all’Europa (proprio perché, come detto, nessuno dei due gasdotti era operativo), anche se la fuga potrebbe continuare per diversi giorni, secondo le prime stime dell’autorità energetica danese. «Essendo in mare, è più difficile individualizzare la perdita» ha fatto sapere un portavoce dell’operatore di Nord Stream 2. «Deve esserci un buco da qualche parte, ma non si sa ancora dove». Inoltre, con il passare delle ore i timori per una lunga e difficile riparazione si fanno sempre più più consistenti.

I danni al Nord Stream ripresi da un aereo danese(Ansa)

Le autorità danesi, tedesche e svedesi che sovrintendono nelle rispettive aree di competenza al gasdotto non escludono il sabotaggio. Al contrario, lo pensano. Con il primo ministro danese, Mette Frederiksen, che si è già spinta ad affermare: «Sebbene sia troppo presto per trarre conclusioni, è difficile immaginare che le molteplici fughe di notizie possano essere una coincidenza». E con gli addetti ai lavori che confermano: «Il fatto che la distruzione sia avvenuta lo stesso giorno su tre linee dei gasdotti offshore del sistema Nord Stream non ha precedenti». Una fonte vicina al governo, citata dal quotidiano berlinese Tagesspiegel, ha riferito che «tutto va contro l'ipotesi di una coincidenza». E che pertanto «non possiamo immaginare uno scenario che non sia un attacco mirato».

I sospetti sulle tempistiche

In effetti, le tempistiche e la contemporaneità degli eventi sono oltremodo sospette: gli operatori che supervisionano Nord Stream 1 hanno affermato che le linee sottomarine hanno subìto quei danni «contemporaneamente». Anche se gli operatori del Nord Stream 2 già lunedì pomeriggio avevano segnalato una perdita di pressione sospetta nel gasdotto. Mentre l’Osservatorio sismico svedese, citato dalla televisione Stv, ha riferito di due esplosioni registrate nel Mar Baltico: la prima alle ore 2.03 e la seconda alle 19.04.

Ad alimentare i sospetti di un atto deliberato, ci sarebbe anche il fatto che le esplosioni sarebbero avvenute esattamente a 12 miglia marine dall’Isola danese di Bornholm, dunque in acque territoriali internazionali. Un segnale che alimenta l’idea di un sabotaggio ben congegnato, e ancor meglio calcolato: se infatti dovesse emergere una qualche responsabilità umana, essendo il fatto avvenuto in una zona di pertinenza non esclusiva, non rientrerebbe nella fattispecie di un attacco diretto contro un Paese europeo. Sofisticazioni da intelligence, insomma.

Ancorché tutto da dimostrare, un attacco alla più importante rete del gas sottomarina d’Europa – che si estende per 1.200 km sotto il Mar Baltico dalla costa russa vicino a San Pietroburgo fino alla Germania nordorientale – sarebbe comunque da ascrivere alla voce «atto ostile» o persino un atto di guerra, secondo certe dottrine militari.

Per questo, forse, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov si è detto «estremamente preoccupato» per l’incidente; e a sua volta non si sente di escludere la possibilità di un «attacco deliberato». Tale dichiarazione è evidentemente tesa a mettere le mani avanti per giustificare le più che probabili accuse di un danno provocato volutamente dal Cremlino per alzare la tensione e la posta in gioco nella guerra.

Puntuale è arrivato anche il commento di Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che su Twitter ha già sentenziato: «La fuga di gas dal Nord Stream 1 non è altro che un attacco terroristico pianificato dalla Russia e un atto di aggressione nei confronti dell’Ue. La Russia vuole destabilizzare la situazione economica in Europa e provocare il panico pre-inverno».

Cui prodest?

Una fonte che opera nell’intelligence di una nazione europea, sembra dare per scontata la peggiore delle ipotesi: «Ci sono reali indicazioni che portano a ritenere che si tratti di un danno deliberato. Quello che ci dobbiamo chiedere adesso è: chi ne trarrebbe profitto?». Ma prima ancora di cercare di comprendere chi ne trarrebbe profitto, vale la pena domandarsi chi ne sarebbe capace. Anche perché le pipeline colpite si trovano a una profondità che varia tra i 70 e gli 80 metri sotto il livello del mare. Dunque, alla portata dei soli sottomarini «avanzati», quelli cioè capaci di mimetizzarsi senza essere rilevati dai rada. E in quell’area solo Russia, Regno Unito e Germania ne dispongono.

Ora, se l’atto fosse stato ordinato davvero dal Cremlino – che, tra l’altro in questo momento esulta per i risultati del referendum farsa in Donbass, dove oltre il 96% ha votato per l’annessione alla Russia – il suo sarebbe un vero azzardo, al limite della follia e un passo prima di un’ulteriore escalation. Eccessivo anche per la sete di rivincita di Vladimir Putin (che pure non esclude l’uso del nucleare dopo la bruciante sconfitta delle settimane scorse a Kharkiv): il Nord Stream, infatti, in condizioni normali porta miliardi di euro nelle casse russe ogni anno, ed è vitale tanto per Mosca quanto per Berlino.

Sabotarlo sarebbe un suicidio. A meno che non si volesse ripetere la tattica della «terra bruciata», adottata dai russi quando Napoleone invase le terre degli zar e ripetuta nel 1941 quando i tedeschi attuarono l’Operazione Barbarossa. In entrambi i casi, i russi distrussero qualsiasi cosa potesse essere utile al nemico, in modo da privarlo dei rifornimenti necessari. Vinsero, ma pagarono un prezzo altissimo. Stavolta, però, non c’è alcuna invasione e in gioco non è la sopravvivenza della Federazione russa. Ci sono solo affari miliardari che sfumerebbero per sempre. Ed è un qualcosa che Mosca non può volere (teoricamente).

L’altra ipotesi, tutta di scuola ovviamente, è che si sia trattato di qualcosa di simile all’incidente nel golfo del Tonchino del 1964, in seguito al quale gli americani ottennero carta bianca per dichiarare guerra al Vietnam del Nord, reo di aver silurato il cacciatorpediniere Usa Maddox. Si scoprirà solo in seguito che si era trattato di disinformazione, e che le forze di Saigon non avevano affatto attaccato la flotta statunitense. Eppure, proprio grazie all’inganno del Tonchino, Washington ottenne la sua (disastrosa) guerra.

Dunque, che oggi ci troviamo di fronte a un sabotaggio russo per fare pressioni sull’Europa o davanti a un sabotaggio filo-ucraino per coinvolgere l’Europa ancor più nella guerra e nella fornitura di armi, un fatto è certo: l’escalation è ormai in atto, e il nostro continente si avvicina sempre più a un coinvolgimento diretto. La guerra in Ucraina è ormai europea e va assumendo giorno dopo giorno proporzioni da scontro totale.