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Chiara Ferragni: «Il silenzio non mi appartiene»

Questo articolo è pubblicato sul numero 7 di Vanity Fair in edicola fino al 14 febbraio 2023

Il cameriere esce chiudendosi la porta alle spalle, e quel gesto banale segna un cambiamento di stato. Tutto il rumore che fa il mondo fuori – la cacofonia della vita vera e il sibilo di quella virtuale – rimane all’esterno, gli infissi sono buoni, i telefoni riposano dentro le borse. Chiara Ferragni, seduta compostissima, rimarrà praticamente nella stessa posizione per un’ora e mezza. Accanto a lei c’è Antonella Veltri: si sono conosciute a settembre, quando Ferragni e il suo team hanno scelto D.i.Re. Donne in Rete contro la violenza, la rete nazionale antiviolenza gestita da donne di cui Veltri è presidente, come partner per un progetto di lungo periodo che comincia con la ormai nota devoluzione del compenso del Festival di Sanremo, ma che – dicono entrambe – proseguirà. «Perché se il denaro serve a sostenere i centri di aiuto, per sostenere le donne c’è bisogno di altro. E questo altro sono le parole. Parlare della violenza nelle sue varie forme, dare un nome, condividere le esperienze per non sentirsi sole», spiega Veltri. 

Ferragni, coi suoi 28,5 milioni di follower su Instagram e più di 6 milioni su TikTok, ha un potere mediatico che nel mondo di prima – un mondo di cui Ferragni non fa parte, ne conserva al massimo qualche souvenir – si sarebbe paragonato a un comunicato in mondovisione. «Tutte abbiamo subito qualche forma di violenza non fisica, almeno una volta nella vita», dice Ferragni. «Solo non sapevamo che nome dare a quel malessere». Stiamo tutte zitte un secondo, il tempo necessario affinché un ricordo sgradevole che ci attraversa i pensieri se ne vada.

A lei, Chiara, quando è successo?
«Non voglio fare nomi, ma ho avuto storie con uomini che, in modi diversi, hanno cercato di svalutarmi. Volevano decidere al posto mio, limitare la mia libertà: “Così non ti puoi vestire”,  “Questo non lo puoi fare”. Qualcuno ha anche cercato di isolarmi dagli amici, dicendo che non andavano bene per me. Quando mi è successo, non sapevo che queste fossero forme di violenza psicologica. Purtroppo, quando sei innamorata cerchi delle motivazioni, costruisci delle scuse. Io mi dicevo: forse fa così perché è geloso, un po’ possessivo. Mi rendo conto adesso che ero io la prima a tentare di normalizzare quei comportamenti. E invece è veramente importante dirsi e dire che non è normale, e sapere che da quel genere di relazioni devi solo scappare, senza dare una seconda occasione». 

Cappotto gilet camicia over e pantaloni Yohji Yamamoto. Stringate Maison Margiela. Cappello Borsalino.

Cappotto, gilet, camicia over e pantaloni, Yohji Yamamoto. Stringate, Maison Margiela. Cappello, Borsalino.

Ne aveva parlato con qualcuno?
«Si fa fatica a raccontare, perché senti che c’è qualcosa di sbagliato, e provi vergogna. Se sei innamorata è ancora più difficile perché tendi a proteggere chi ami, non vuoi che si pensi male di lui. No, non lo sapeva nessuno».

Come è finita?
«Le limitazioni aumentavano, e io stavo sempre peggio. Quel disagio che provavo mi ha fatta andare via. Ho capito che erano forme di violenza solo da pochi anni, quando si è iniziato a dire che, in una relazione, violenza non sono solo le botte. Un giorno ho letto una storia che assomigliava alla mia, mi sono detta: cazzo, è successo anche a me. Non è necessario che si arrivi alle mani addosso per creare un danno. La violenza psicologica può lasciare segni pesanti in chi la subisce. Distrugge l’autostima, il senso di sé». 

Antonella Veltri: «Dalle rilevazioni fatte costantemente attraverso le 82 organizzazioni e i 106 centri antiviolenza che coordiniamo, vediamo che la violenza psicologica è la base alla quale si vanno ad affiancare le altre forme di sopruso: dalla violenza economica a quella fisica. Una delle prime spie di una relazione violenta è l’isolamento della donna – “Perché vedi tua madre?”,  “Devi proprio uscire con le amiche?”.  A cui si accompagna spesso la svalorizzazione: “Ma lascia stare, non sei capace”. Gli studi dimostrano che più la donna acquisisce consapevolezza dei propri diritti più aumenta la tensione all’interno della coppia e l’azione violenta dell’uomo».

La bellezza, il successo, la ricchezza, l’indipendenza, per un certo tipo di mentalità patriarcale sono cose che la donna non può possedere, sono minacce.
«È così. Certi uomini si sono avvicinati a me affascinati dal successo, ma poi hanno provato a smembrarmi per riequilibrare quel potere che credevano dovesse stare solo nelle loro mani. E non è una questione anagrafica, generazionale. Quando mi è capitato ero molto giovane e loro erano miei coetanei. L’età non conta, lo so anche dai tantissimi messaggi che ricevo: ragazze che mi raccontano le loro storie terribili, anche di violenza fisica. Io quella non l’ho mai sperimentata, ma ho amiche che l’hanno vissuta. Sono molto contenta che le nuove generazioni siano più attive sul fronte dei diritti e della libertà di quanto lo sia stata la mia. Grazie ai nuovi media si parla di tanti temi. Parlarne è sempre il primo passo».

Ma dopo che se ne è parlato che cosa deve succedere?
Veltri: «C’è un privilegio maschile nel mantenimento dell’asimmetria del potere tra uomini e donne. Facciamo bene a parlarne in maniera corretta, ma dobbiamo capire anche come sradicarlo. Bisogna fare più leggi? Le leggi ci sono, basta applicarle. Le persone che agiscono la giustizia devono essere formate: le donne devono essere credute. Delle 20 mila donne che, grazie all’operato delle nostre 3 mila volontarie, passano dai nostri centri, solo il 28 per cento denuncia. Il resto non lo fa anche perché ha paura che la sua parola verrà messa in dubbio. Essere formati significa credere alle donne, fare le indagini e, dopo le indagini, decidere. Anche la stampa ha bisogno di formazione: l’uso delle parole fa cultura, e in questo ambito è cruciale. Ognuno deve fare la sua parte per aiutare a rimuovere i pregiudizi e gli stereotipi che sono i presupposti strutturali e culturali della violenza. Sono armamentari, a volte visibili e altre invisibili, che riguardano la costruzione di ruoli definiti: le donne che sono “dolci”, “imprevedibili”, mentre l’uomo è “preciso” e “razionale”. Eliminare questi stereotipi è il fondamento per una vita libera da etichette».