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Dai rigassificatori al salario minimo, i cinque punti di Calenda per dialogare con il futuro governo

«Non abbiamo raggiunto l’obiettivo del 10%, ma mi trovi un altro partito che ottiene 2,2 milioni di voti in un mese. Siamo a un soffio dalla Lega e da Forza Italia e il primo partito tra i giovanissimi». Il leader del Terzo Polo Carlo Calenda non festeggia, ma non parla neanche di sconfitta. In ogni caso, dice in un’intervista al Corriere, «la campagna elettorale è finita, ora occupiamoci dello tsunami che sta arrivando», dice. «I tassi stanno schizzando in alto, i costi dell’energia rimarranno alti per molto tempo e richiederanno interventi in deficit. L’inflazione sta colpendo i salari e le pensioni e dal prossimo anno saremo in recessione. Abbiamo davanti la congiuntura peggiore dal dopoguerra».

Calenda elenca le urgenze che deve affrontare l’Italia, partendo da cinque priorità per un «piano di protezione del Paese».

Anzitutto, «rassicurare i mercati cancellando le promesse folli di Salvini e Berlusconi sulle pensioni, sulla flat tax e sul raddoppio del reddito di cittadinanza». Ma nessuna rinegoziazione del Pnrr: «Dobbiamo chiarire subito all’Ue che andremo avanti con le riforme, senza rinegoziazioni. Bisogna intervenire sulle bollette, disaccoppiando rinnovabili e gas, realizzando subito il rigassificatore di Piombino e le altre opere strategiche. Poi salario minimo a 9 euro, formazione e collocamento dei percettori del reddito e dare la possibilità di pagare una mensilità in più ai lavoratori, detassata e recuperata al 50% con credito d’imposta».

Su questi punti, dice, «siamo disposti a dialogare con il governo. Ma se perdiamo tempo con le bizze di Salvini e le discussioni interne al Pd rischiamo di perderci per strada il Paese. La rivoluzione dei Cinque Stelle è fallita come quella della Lega e ora proviamo Meloni, non riusciamo a uscire dalla trappola del populismo».

Calenda annuncia che il Terzo Polo farà «un’opposizione responsabile, se ci portano il rigassificatore di Piombino lo voteremo, se dicono cacchiate sulle pensioni li contrasteremo. Se toccano diritti come l’aborto, scenderemo in piazza».

La previsione di Calenda è che «sarà un esecutivo fragile e conflittuale». Ma Azione e Italia Viva non passeranno con la destra: «Assolutamente sì, lo metta pure per iscritto».

In ogni caso, il rischio di isolamento dell’Italia in Europa esiste: «La proposta del capogruppo di Fratelli d’Italia Lollobrigida di subordinare il diritto europeo a quello italiano è come dire usciamo dall’Europa. Davanti alla tempesta perfetta, con “la pacchia è finita” andiamo contro un muro. La Bce non ci potrebbe più proteggere e l’Ue non ci darebbe i 130 miliardi del Pnrr».

Chi vorrebbe invece alla guida del Pd, suo ex partito? «Stimo tante persone, da Gori a Nardella», risponde Calenda. «Ma il Pd è governato da Orlando, Franceschini, Zingaretti e Bettini, un gruppo che, insieme a Provenzano, Bersani e D’Alema vuole andare in braccio a Conte. Ne faranno il leader dei progressisti. Sui temi si collabora, ma nessun patto, nessun asse col Pd».

Intanto, «noi faremo una federazione con Italia viva e apriremo un processo costituente per arrivare a un partito unico entro le Europee. A Più Europa e a Cottarelli dico: “Venite subito a lavorare con noi”». «Se non si costruisce un centro riformista serio questo Paese è finito».

Ma da Più Europa, sempre sul Corriere, arrivano le accuse di Emma Bonino. «Nel mio collegio la candidata di centrodestra Lavinia Mennuni ha vinto grazie al fatto che Calenda ha rotto il patto con il Pd ed è andato come polo autonomo alle elezioni. E il mio non è un caso isolato», dice la senatrice non rieletta. «Calenda aveva sottoscritto un accordo poi disdetto dopo pochi giorni. Se fosse rimasto fedele a quell’accordo la maggioranza di destra al Senato sarebbe stata in forse e comunque risicatissima». E ribadisce: «Lo dicono le analisi dei flussi elettorali che dimostrano che quello di Azione è stato un voto progressista. È una questione aritmetica prima che politica. Per noi di Più Europa tutto era invece chiarissimo». Cioè: «Nessun voto liberale doveva favorire Meloni e Salvini nella parte maggioritaria e anche per questo abbiamo mantenuto fede all’alleanza con Letta. Abbiamo seguito le convinzioni e non le convenienze, e siamo fieri di averlo fatto anche questa volta».