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Fra tribunali e memoriali, la Germania ha davvero fatto i conti col passato? Speccher: “Anche ora c’è una battaglia per la memoria”

TRENTO. “La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo” è una frase che ricorre spesso nei dibattiti nostrani sulla memoria. “Altro che gli italiani”, è la quasi automatica coda di chi vuole rimarcare il complicato e incompiuto rapporto, nello Stivale, con il passato fascista (affrontato fra gli altri dallo storico trentino Francesco Filippi, QUI l’articolo). Scaduta nello stereotipo, che tradizionalmente vuole il tedesco “serio” ed “efficiente” opposto all’italiano “frivolo” e “negligente”, così la disputa può dirsi chiusa.

Eppure, come spesso accade, dietro al pregiudizio si nasconde una realtà ben più complessa. È questa l’oggetto del libro La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo, edito da Laterza per la collana “Fact checking”. “Se oggi ci sono tutte queste tracce del passato nazista e dei suoi crimini, soprattutto i memoriali, non significa che siano il segno di una cultura della memoria di successo. Sono invece il segno di una battaglia per la memoria”, spiega l’autore, lo storico e filosofo Tommaso Speccher, raggiunto dal quotidiano il Dolomiti.

Dalle macerie “dell’anno 0” alla cultura memoriale robusta e radicata che troviamo in ampi strati della società tedesca, di strada ne è stata percorsa. Non si è trattato affatto di un cammino agevole e lineare, ma di un processo fatto di accelerate e frenate, di inquietanti continuità e di radicali rotture. “‘Fare i conti con il nazismo’ – scrive Speccher nell’introduzione – è stato un processo osteggiato dai più, provocato da alcuni ma, in fin dei conti, il risultato inevitabile di una presa di coscienza collettiva e della costruzione della società civile tedesca odierna”.

Ma come siamo arrivati a questa situazione? E quali sono stati i maggiori ostacoli sul percorso della presa di coscienza di quel passato terrificante e vergognoso? Processi penali, denazificazione, continuità nel funzionariato, memoria conflittuale, sono alcuni dei punti affrontati dall’autore, in un volume agevole ma ben documentato. Scandagliando decennio per decennio, Speccher ha così mostrato quanto difficile e incompiuto sia stato in realtà questo “fare i conti” col nazismo.

“Fare i conti con il nazismo”, soprattutto, è dipeso dal contesto. Speccher ripercorre così il terribile dopoguerra e le “ere politichesuccedutosi a Ovest, da Adenauer a Brandt, da Kohl a Schröder, fino all’appena conclusa “era Merkel”; momenti in cui la storia compie flussi e riflussi anche in campo memoriale, fra spinte ad affrontare il doloroso passato o a metterselo alle spalle.

Di contro a quanto comunemente s’immagina, la rottura con il passato nazista fu in Germania un processo tutt’altro che automatico e lineare. Basti il dato, riportato nel volume di Speccher, riferito alla “denazificazione”, cioè all’epurazione dagli apparati pubblici e dalla società di ogni figura collegata a vario titolo con il regime hitleriano. Negli anni ’80, a 35 anni dalla fine della guerra, su 3,6 milioni profili registrati nelle quattro aree di occupazione solo 230mila diverranno oggetto di inchiesta, concludendosi poi, in molti casi, in un nulla di fatto.

Se i processi di Norimberga (in complessivo 13, su tutti quello che vide al banco degli imputati Göring, Ribbentrop, Frank, Keitel, Hess e altri) rappresentarono uno straordinario evento, capace di rivoluzionare il diritto, nondimeno difficile risultò trascinare i criminali nazisti di fronte alle corti e ancor di più condannarli a pene esemplari. Se ne rese conto, suo malgrado, il pubblico ministero Fritz Bauer, ebreo sfuggito allo sterminio e ritornato in patria nel dopoguerra.

Figura centrale nell’avviare indagini e processi nei confronti dei criminali nazisti responsabili dell’uccisione, della deportazione e dello sterminio di oppositori politici ed ebrei, Bauer trovò sul percorso della giustizia non pochi ostacoli. In particolare, fu la questione della responsabilità a determinare esiti giudiziari ai nostri occhi vergognosi. Come si poteva, infatti, giudicare le azioni illegali di uno Stato arbitrario e illegittimo? Chi era, in ultima istanza, il responsabile delle atrocità, se non i vertici del regime, da Hitler a Himmler, passando per Heydrich?

Ripercorrendo gli esiti dei processi penali e delle misure di risarcimento delle vittime, la continuità negli organi dello Stato e nella società, calandoli nel loro contesto fatto di alternanti fasi di apertura e di chiusura, oltre che di divisione fra Est e Ovest, Speccher non manca inoltre di soffermarsi sulle lotte generazionali. Ed è proprio lì che il “fare i conti” emerge con particolare veemenza, dalla violenza della banda Baader-Meinhof alla nascita di movimenti e associazioni in grado di costruire una cultura della memoria forte e radicata.

“Se abbiamo la percezione, dall’esterno, di un Paese che ha fatto i conti con il passato ciò dipende dalle tante tracce che ci sono e si sono avvicendate nei decenni – spiega l’autore – se oggi queste tracce ci sono, soprattutto i memoriali, ciò non significa che siano il segno di una cultura della memoria di successo. È stata, molto di più, una battaglia per la memoria. Quelli che vediamo ora, soprattutto, sono stati aperti dopo il 2000, sono d’ultima generazione. Vengono dopo la caduta del Muro, dopo una storia molto complessa, lenta e lunga decenni, fatta di contraddizioni e rotture sociali

“Se oggi questa storia è emersa e ci fa pensare che la Germania abbia effettivamente fatto i conti con il passato, ciò non significa che la cosa sia risolta – prosegue Speccher - ci sono ‘altre Germanie’, infatti, un sentimento diffuso che critica questa cultura della memoria, espresso ad esempio partiti di destra che hanno sì Alternative für Deutschland come capofila ma che contano su un attivo movimentismo. Pensiamo ai Reichsbürger, coinvolti nel recente colpo di Stato sventato dalle autorità. Un evento che racconta di una grande connivenza in alcuni settori dello Stato, dalla Bundeswehr (l’esercito tedesco, ndr) alla polizia o agli organi del diritto (QUI l’articolo)”.

Speccher mostra così come “fare i conti con il passato” non sia affatto un processo che si conclude e si può dare per chiuso, anzi. Si tratta di una costante sfida che una società democratica ha davanti, affinché gli anticorpi all’orrore prosperino e si rafforzino (QUI un approfondimento). “Più che una cultura della memoria, quindi, in Germania c’è una battaglia per la memoria. Nulla è scontato e questi spazi unici, come i memoriali, costruiti a partire dalla terza generazione, dagli anni ’90, punto d’arrivo di un’emersione lentissima ma inesorabile del peso del passato, vanno difesi. Anche perché oggi, nella Germania attuale, non c’è quella forza che c’era un tempo”.

Nel 1989 il Paese visse un momento unico, perché rinascendo la Germania ebbe la possibilità di ripensarsi come nazione. Lo fece partendo non dall’idea insostenibile dell’appartenenza etnica, ma da una sorta di memoria negativa. Una memoria non identitaria, ma anti-identitaria, legata alle vittime, ai crimini del nazismo. Un’unicità, certamente, con ricadute sulla politica nazionale, una politica che cerca di evitare perentorietà e decisionismo, che cerca di non affermarsi mai con spirito identitario”, conclude.  

Questo articolo è il secondo di un ciclo di interviste e riflessioni sulla memoria e le ricorrenze che marcano questa parte dell'anno. Memory: 27/1-10/2, rubrica di approfondimento giunta alla sua "terza edizione" vuole interrogarsi sul senso, le potenzialità e i rischi dell'insistenza sulla memoria nello scenario pubblico. La sua prorompente ascesa, infatti, si è accompagnata alla parallela scomparsa o alla riduzione dello spazio delegato alla Storia, come analisi critica del passato. Memory consiste nel mostrare come le “tessere” della memoria – i ricordi – non coincidano mai perfettamente tra loro.