Ha molto colpito la storia del falegname di Marano, in provincia di Napoli, impiccatosi nel suo opificio in seguito al sequestro un mese fa dell’immobile e dei macchinari da parte della polizia municipale. Un atto conseguente alla constatazione di alcune violazioni di legge in materia ambientale e urbanistica in presenza delle quali si è ravvisata la natura abusiva dell’attività o parte di essa.
L’uomo, di 52 anni, separato dalla moglie, lascia due figlie e un lungo strascico di polemiche da parte di chi lo ha conosciuto come persona buona e apprezzato ebanista. Giovanni Cerqua, questo il suo nome, prendeva molto sul serio il lavoro e stando alle cronache teneva alla puntualità delle consegne e alla buona reputazione. Forse, non sapeva nemmeno di stare violando qualche norma.
L’ignoranza della legge, come si sa, non può essere usata come scusa per il suo mancato rispetto. Le regole vanno onorate sempre e comunque a beneficio della convivenza civile, della concorrenza, della società. Ma occorre saper graduare le sanzioni, renderle possibili e compatibili con la dignità di chi vede a rischio la propria sopravvivenza. E assicurare celerità nei tempi di risoluzione.
Il sequestro delle attività lavorative rappresenta una misura estrema, violenta, soprattutto se comminata ad artigiani e piccolissimi imprenditori che non hanno altre risorse che le proprie braccia e la propria abilità per tirare avanti e far campare la famiglia. E tutti sappiamo che la congerie delle prescrizioni è talmente intricata e vessatoria da renderne diabolico il rispetto.
Una cosa è delinquere deliberatamente, arricchendosi sulla pelle degli altri, un’altra è commettere qualche irregolarità che potrebbe con buona volontà essere sanata senza provocare traumi che possano condurre all’esasperazione e, come in questo caso, alla morte per suicidio. Vedersi spogliare dei pochi beni che si posseggono, e non poter procurarsi il pane, fa molto male.
L’istituto del sequestro è molto utilizzato dalle forze dell’ordine e dalla magistratura inquirente. E può essere attivato per varie tipologie di reato, il più delle volte in via presuntiva e preventiva. Cioè in assenza di un’acclarata colpevolezza e dunque sulla base di un’ipotesi delittuosa tutta da dimostrare e che spesso crolla in sede di giudizio, quando la difesa può finalmente entrare in campo.
Nei casi più estremi, quando c’è di mezzo un’ipotesi di criminalità mafiosa o imprenditoriale, il sequestro preventivo è disposto “per equivalente” e quindi senza che lo Stato debba provare la provenienza malavitosa dei beni che si sottraggono alla disponibilità dei soggetti incriminati. La misura, di carattere eccezionale, è diventata quasi ordinaria per la sua semplicità di applicazione.
Una persona che conosco molto bene, colpito nel passato da sequestro preventivo e per equivalente di tutti gli averi personali e aziendali, quindi messo nella condizione di non poter lavorare né guadagnare e in sostanza vivere, si è sentito consigliare da un alto grado della Guardia di Finanza di affidarsi alla benevolenza di amici e parenti per tutto il tempo di un giudizio che si sarebbe protratto per anni.
Questo per dire della barbarie giuridica nella quale siamo piombati – Alessandro Barbano ne parla diffusamente e meritoriamente nel suo ultimo libro L’Inganno – e della cultura che la alimenta. Molti, troppi provvedimenti, sono assunti con superficialità e senza tener conto delle conseguenze che potrebbero provocare. Est modus in rebus, c’è un modo di fare le cose anche nel campo della giustizia.