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I dirigenti del Pd vogliono cambiare radicalmente il partito, ma dovrebbe essere il contrario

Oggi si apre la direzione del Partito democratico, la prima dopo la sconfitta elettorale. Riunione che vede all’ordine del giorno una franca discussione su come non affrontare l’esito del voto e su come rinviare il congresso, o quanto meno mandarlo il più possibile per le lunghe.

Facile prevedere che dal dibattito emergerà come l’origine di tutti i problemi attuali sia da ricercare molto indietro nel tempo (e pazienza se, per quanto indietro si risalga, Dario Franceschini e Andrea Orlando sempre al governo li si trovi), mentre la soluzione bisognerà andarla a prendere di sicuro molto più avanti, al termine di un lungo percorso e di un lunghissimo lavoro, uno sforzo di ripensamento così radicale, un’opera di ricostruzione così profonda, che certo lascerà ben poco tempo e ancor meno energie per meschine discussioni sulle scelte e le responsabilità di questi ultimi anni, figurarsi degli ultimi mesi.

Certamente qualcuno rilancerà l’idea di cambiare – ancora una volta – nome e simbolo. Dopo ogni sconfitta, infatti, si direbbe che la responsabilità sia sempre dei simboli e mai dei singoli.

Alla vigilia di un appuntamento politico tanto importante e gravido di novità dirompenti, non per niente, sui giornali di ieri spiccavano le interviste alle seguenti personalità, in ordine rigorosamente alfabetico: Pier Luigi Bersani (Corriere della sera), Massimo D’Alema (il Fatto quotidiano), Walter Veltroni (La Stampa). Vale a dire tre dei principali leader che quel partito hanno guidato (Veltroni e Bersani) o contribuito a fondare (D’Alema). Nessuno dei quali, peraltro, ne fa più parte: D’Alema e Bersani perché ne sono usciti nel 2017 fondando Articolo Uno (ora forse in procinto di rientrare), Veltroni perché gradualmente distaccatosi dalla politica tout court.

Chi conosce un po’ la storia del dibattito interno alla sinistra post-comunista sa che D’Alema era quello del primato della politica e dei partiti strutturati (della vecchia politica e dell’apparato, secondo i detrattori), in eterna lotta contro l’antipolitica; Veltroni era quello del partito leggero e aperto alla società civile (del nuovismo e delle «figurine», secondo i detrattori), sempre a suo agio tra cantanti, attori, scrittori (e giornalisti). Dialettica che si era riproposta anche nel Partito democratico, con Bersani a lanciare contro Veltroni l’accusa di volere in realtà un «partito liquido».

Indovini ora il lettore quale di questi tre dirigenti ieri era l’unico a dire che i cinquestelle devono ancora «allontanare elementi di antipolitica», a mettere in guardia dal rischio di una «subalternità» della sinistra nei loro confronti, nonché a definire un errore «cambiare posizione rispetto alla riforma sul taglio del numero dei parlamentari», perché «la Costituzione non si cambia a pezzetti con le urla». E chi al contrario tesseva l’elogio di Giuseppe Conte, invitando più o meno esplicitamente il Pd a riconsegnargli le chiavi della baracca.

Come avrete capito, non c’è più gusto nemmeno a occuparsene, se non per una notazione a margine. Negli ultimi trent’anni, mentre nelle democrazie mature erano i grandi partiti a cambiare i propri gruppi dirigenti, da noi accadeva il contrario. Spd in Germania, Labour Party in Gran Bretagna, Psoe in Spagna stanno lì da oltre un secolo: Gerhard Schröder, Tony Blair e tutti i loro colleghi europei degli anni novanta vincevano le elezioni, governavano a volte anche per lunghi periodi, prima o poi venivano sconfitti e a quel punto lasciavano il posto ai rispettivi successori.

I loro colleghi italiani, al contrario, facevano in tempo a essere blairiani ai tempi di Blair e anti-blairiani ai tempi di Jeremy Corbyn, rispondendo a ogni crisi rilanciando l’esigenza di cambiare nome e simbolo, cambiare partito, cambiare tutto, tranne la loro collocazione. Se questo discorso vi suona familiare, non vi sbagliate: la scuola è quella.

E tuttavia in questo lungo processo di continue metamorfosi c’era anche la politica, e c’erano state pure tante buone cose, che molti di quei vecchi dirigenti ancora oggi potrebbero rivendicare (come fa in parte, e giustamente, Veltroni). C’era, comunque, un’evoluzione, per quanto contraddittoria e tormentata.

Ma quando oggi tanti di loro arrivano a dire, come ha fatto ieri D’Alema nella sua intervista, che era meglio lasciare le cose come stavano, che «il centrosinistra sarebbe molto più forte se avesse avuto un partito socialista e un altro di sinistra cattolica», l’ultima abiura è pronunciata, l’ultimo autodafé è consumato, l’ultima e definitiva giravolta toglie dal tavolo ogni possibile motivazione politica razionale all’intera traiettoria. Il cammino compiuto in questi trent’anni può riprendere da capo in direzione contraria, si toglie quel che si è messo e si mette quel che si è tolto, che problema c’è?

Basta con il riformismo, «parola talmente ambigua da essere diventata impronunciabile», dice ora D’Alema, senza accorgersi di essere finito a ripetere quasi testualmente quel che Sergio Cofferati, ai tempi del D’Alema riformista e blairiano, diceva pensando a lui («riformismo è una parola malata» dichiarava per l’esattezza, ormai vent’anni fa, l’ex leader della Cgil). Quel che fino a ieri era antipolitica è oggi una squisita connessione sentimentale con il popolo, quello che era un «giornale tecnicamente fascista» è ora un baluardo dell’informazione libera.

Quel che fino a ieri era, comunque e nonostante tutto, politica, oggi ditemi voi che cos’è, perché io proprio non lo so più.