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''Il bello del climbing è che ogni volta ti permette di ridefinire il possibile e l’impossibile: diventa un modo per vedere la vita'', Tommy Caldwell va ''oltre il limite''

TRENTO. Lentezza ma anche velocità. La roccia sotto i polpastrelli. La libertà di arrampicare. Le difficoltà che "non possono che rafforzarti, la sofferenza non può che migliorarti". I riflettori del Festival dello sport si sono accesi su Tommy Caldwell, il 44enne del Colorado è tra i più grandi arrampicatori del mondo. 

Una piccola sequenza di fotografie – da quando aveva tre anni e suo padre lo portò per la prima volta ad arrampicare, alle imprese patagoniche più recenti – ha fatto da sfondo e da filo narrativo al racconto biografico di Tommy Caldwell, imbeccato dalle domande di Sandro Filippini tradotte in inglese da Luca Calvi, volti noti di un altro festival trentino, il Film Festival della Montagna.

E la montagna è stata la grande protagonista della chiacchierata informale con il grande arrampicatore statunitense. Le difficoltà hanno costellato la sua vita. Tutte superate e diventate patrimonio di crescita. "Ero un bambino esile e timido, nato prematuro. L’idea di mio padre era di formarmi al futuro tramite le montagne, che mi avrebbero preparato alle difficoltà".

Poca visione (dagli occhi) in profondità, un corpo sottopeso ma tanta voglia e determinazione. Poi, nel 2000, in Kirghizistan, il sequestro da parte di un gruppo di terroristi, la prigionia di sei giorni, la fuga poco prima dell’esecuzione: "E' stato qualcosa di veramente drammatico, che mi ha plasmato. Da ragazzotto che ero, sono diventato uomo".

Ma gli imprevisti non erano finiti, sulla via di Caldwell. In un incidente domestico, la perdita della falange dell’indice della mano sinistra. "Cambia sport" il consiglio dei medici. Invece ancora una volta lui ha sfidato i limiti. E li ha superati. "Il nostro corpo – spiega – è incredibilmente bravo ad adattarsi. Ho reso più forti le dita rimanenti e ho cambiato stile di arrampicata: ero specialista del boulder e mi sono concentrato sulle grandi pareti in arrampicata libera".

Anche 900 metri di parete, come El Capitan, il monolite verticale della California che è diventato la sua seconda casa. "Il bello del climbing è che ogni volta ti permette di ridefinire il possibile e l’impossibile. Diventa un modo per vedere la vita. Per questo sono ottimista. El Capitan l’ho studiato per dodici anni e ho capito il suo linguaggio. Mi sono calato dall’alto per studiare appigli e concatenamenti. E ho impostato una preparazione ginnico-atletica calibrata su mosse e movimenti che avrei dovuto riprodurre in parete". Oggi tutta questa passione e questa conoscenza Caldwell è pronto a trasmetterla ai figli. Il piccolo maschio si chiama Fitz, come il Fitz Roy, l’iconica montagna della Patagonia.