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Italia, il paziente fragile

Questo articolo è pubblicato sul numero 41 di Vanity Fair in edicola fino al 11 ottobre 2022

C’è un elemento del quale si è parlato troppo poco nei giorni successivi alla tragedia nelle Marche, dove l’esondazione del fiume Misa ha devastato l’entroterra e ha ucciso dodici persone, ed è l’educazione ambientale, cioè la poca consapevolezza che abbiamo di vivere in un Paese pericoloso, dove si può morire di clima, dove un temporale può ucciderti, dove il posto in cui cammini o guidi per tornare a casa può diventare una trappola da cui non potrai tirarti fuori. 

«Purtroppo molte delle vittime dell’ultima alluvione nelle Marche erano in auto, oppure in garage, negli scantinati o per strada. Se fossero state al sicuro dentro casa oggi sarebbero vive», spiega Barbara Lastoria, ricercatrice dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) ed esperta di alluvioni. «Per affrontare eventi del genere serve una specie di salto cognitivo collettivo su cosa significa vivere in un Paese così fragile, colpito dalla crisi climatica. Io non riesco nemmeno a immaginare cosa possa significare trovarsi all’improvviso sotto 400 millimetri d’acqua che ti vengono addosso, forse non ci rendiamo conto di quello che è successo, di quanto fosse grave». 

Il primo tema è la scala, la proporzione dell’evento. La scorsa estate in Germania e Belgio ci sono state alluvioni spaventose, il peggior evento climatico d’Europa nel 2021, con 180 vittime. In quell’occasione erano caduti 250 millimetri di pioggia nell’arco di diversi giorni: la zona di Senigallia ha dovuto affrontare quasi il doppio della pioggia in un quarto del tempo. Come mi ha spiegato Luca Brocca, dirigente di ricerca del Cnr specializzato in idrologia, cioè in acqua, «nessun territorio può essere messo in sicurezza contro un evento di queste dimensioni, non ci sono argini che tengano quando tutta quella pioggia entra in fiume». Ecco, la storia di come l’Italia, col suo cronico dissesto idrogeologico, possa affrontare i cambiamenti climatici, passa anche da qui, cioè da noi. Non contano solo gli argini che possiamo mettere ai circa 7.500 corpi idrici presenti sul territorio, ma anche quelli che dobbiamo costruire dentro le nostre teste per affrontare un mondo che cambia così velocemente. «Dobbiamo affrontare i temporali, almeno certi temporali, con la serietà con la quale affronteremmo un terremoto o un’eruzione vulcanica». Tradotto: come una cosa che ti può uccidere se ne avrà la possibilità. 

Senigallia dopo l'alluvione del 1516 settembre

Senigallia dopo l'alluvione del 15-16 settembre

Antonio Di Cecco

Per citare il titolo di un famoso film, non conta solo la forma dell’acqua, ma anche la forma del Paese, e quella del nostro è una forma problematica. Spiega Lastoria: «Ci sono una serie di fragilità congenite del nostro territorio. La presenza dell’Appennino che lo taglia a metà, il reticolo idrografico, il fatto che i fiumi hanno andamento torrenziale e che si trovano a pendenze elevate». In pratica, siamo un Paese verticale, fatto di colline e montagne, e pieno di corsi d’acqua. Poi noi ci abbiamo messo del nostro, l’abbiamo aggravata questa fragilità, in primo luogo con il consumo di suolo, cioè la nostra ansia di costruire, di auto-colonizzarci, di tradurre la voglia di benessere e crescita in cemento. Il suolo è una risorsa limitata: ogni volta che si edifica un terreno, lo si sottrae ai suoi compiti naturali e lo si rende impermeabile. L’acqua non potrà più essere infiltrata, e quindi, quando arriverà, scorrerà sempre più violenta. Ormai secondo i dati Ispra, il 7,13 per cento d’Italia è fatto così, con i picchi superiori al 10 per cento in Lombardia, 
Veneto e Campania. E ancora: sempre secondo Ispra, il 93,9 per cento dei comuni italiani è a rischio per frane, alluvioni o erosione costiera. In più: sono 1,3 milioni gli italiani che vivono ogni giorno a rischio di essere travolti da una frana, 6,8 milioni sono a rischio alluvioni. Noi quanto siamo consapevoli di tutto questo? 

Un altro errore storico che stiamo scontando è aver messo la camicia di forza ai fiumi. Quando arriva tutta quell’acqua, i corsi d’acqua avrebbero bisogno di spazio per non esploderci addosso come bombe. Noi quello spazio glielo abbiamo sottratto un poco alla volta. «Negli ultimi cinquant’anni abbiamo eliminato circa duemila chilometri quadrati di spazio ai fiumi», spiega Andrea Agapito Ludovici, responsabile programma acqua del Wwf. «Abbiamo canalizzato tutti i fiumi, e così facendo li abbiamo trasformati in bombe a orologeria. Il Po, lungo il tratto centrale tra le province di Lodi e Mantova, si allargava in tanti bracci laterali e ora invece è compresso in un unico canale. È la logica italiana per cui mi difendo a casa mia e poco mi importa di quello che succede più a valle. Moltiplicalo per tanti anni, per la gran parte dei corsi d’acqua italiani, e l’effetto è quello di avere piene sempre più disastrose». Lastoria usa la metafora della sedia. «La natura dà ai fiumi uno spazio in magra e uno in piena e quella è una sedia comoda, in cui il fiume sta bene. Noi però gli abbiamo tolto sempre più margine, abbiamo rimpicciolito la sedia, fino a interrare i fiumi in alcuni casi, costruendoci sopra piazze ed edifici. L’effetto è che restringi oggi, restringi domani, quando arriva l’acqua la sedia scoppia».