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La vittoria di Juditha, donna decapitatrice ma dubbiosa: l'Università va in scena e Trento è subito più ricca

Altro che M, lui. O M, lei. Un secolo dopo la marcia. Insomma, la donna che ha vinto le elezioni del 25 settembre 2022 e passerà alla piccola storia d’Italia. Da un Ventidue a un altro Ventidue, scavalcando un millennio. Qui la vincitrice è J., Juditha, i lunga, e una storia più lunga (fine del secondo secolo avanti Cristo) e più profonda. Storia universale di una donna che sfida il potente (e i pronostici), armata solo di astuzia e di… una lama tagliente. Lunedì sera 21 settembre, in bilico tra l’estate e l’autunno, la chiesa barocca di San Francesco Saverio a Trento si è riempita fino all’orlo (e alcuni sono rimasti fuori) per un concerto di musica contemporanea – per un oratorio, addirittura, genere poco contemporaneo – nell’ambito del festival di musica antica.

Opera nuova in prima esecuzione assoluta, di Marco Uvietta. Che, d’accordo, ha preso a prestito – e ha fatto benissimo – musiche antiche di Bach, Händel, Scarlatti. Ma immergendole in un tessuto musicale contemporaneo, con testi contemporanei dei contemporanei Francesco Ghia (la prosa di commento) e Carla Gubert (i versi cantati). Autori tutti e tre dell’Università di Trento. Dal cui Centro di alti studi umanistici – dipartimento di eccellenza (coordinato da Maurizio Giangiulio) l’opera è nata dopo un lungo lavoro di seminari e confronti interdisciplinari. Vivi, affiatati e contemporanei tutti gli esecutori, s’intende. Corale polifonica dell’Università di Trento (direttore Marco Gozzi), ensemble Feininger (Gianotti, Gozzi, de Salvo Fattor), musicisti della Windkraft – Kapelle für neue Musik, percussionisti Alessandro Bianchini e Andrea Dulbecco, organista Simone Vebber. Direttore Giancarlo Guarino.

Insomma, un evento culturale che ha fatto il pieno (d’accordo: l’ingresso era libero e perdipiù ti regalavano un magnifico libretto con testi e approfondimenti, ma provate a riempire uno spazio così, di lunedì, e senza birre, a Trent Town). Città spiazzante, Trento. Che conferma come sarebbe più povera e triste senza un’Università capace di inventarsi, come in questo caso, una produzione artistica di primo livello. Con docenti che fanno ricerca ma poi raccontano storie. Con studenti che suonano e cantano. Con studenti e docenti che accorrono per una Juditha dubbiosa. Dubitante ma esaltante. Città (università) che si sa inventare un evento di cultura contemporanea attorno a una Donna Protagonista Antica. Giuditta, Judith, Juditha: dubitans, non triumphans come quella di Vivaldi. E dunque “contemporaneizzata”. Ma pur sempre antica. Come la storia che l’ha resa immortale, come il popolo da cui è sorta e di cui porta il nome per antonomasia, giudaico fino alle viscere. Quintessenza dell’ebraicità. Giudea di nome e di fatto.

Storia viscerale, appassionata e appassionante: un esercito nemico che cinge d’assedio una città (Betulia, come nel testo, o un’altra città, che importanza ha?, è la nostra città, la città di chiunque si è sentito, nella vita, prigioniero, perduto, assediato), la prospettiva concreta di una morte, anzi di una strage di innocenti (o comunque di soccombenti) e Juditha che decide di diventare la mano della morte per restituire il suo popolo alla vita. Dunque la bella Giuditta (originale in greco, libro apocrifo per gli ebrei, inserito invece nella Bibbia cattolica) si mette addosso le vesti più splendide e i profumi più seducenti e, accompagnata da una serva con una cesta (che poi verrà utile per raccogliere la testa del nemico decapitato), va a bussare alla tenda del generale assiro assediante, Oloferne, braccio destro di Nabucodonosor. Eros e thanatos come non mai, amore e morte, seduzione e decapitazione. Un caso scandaloso, che non a caso ha affascinato grandi pittori e continua a sedurre nuovi autori.

Qui la Juditha di Uvietta si interroga. E ci interroga. Il nemico è diverso, antropologicamente, da me? La violenza è un’arma di liberazione? Un’arma della politica? La storia tramanda e trasfigura, ovviamente. Ma la storia tramanda soprattutto due cose: la bellezza di testi, musiche, storie; e il coraggio, personale e collettivo, dunque ciò che cambia il corso della storia. E il coraggio memorabile è naturalmente del debole contro il forte: Davide contro Golia, insomma; o le libere donne di Teheran e di Persia, capelli controvento in piazza contro le barbe marmoree e omicide degli ayatollah rinserrati nei palazzi del potere maschile, sedicente sacro e inviolabile.

Juditha, dunque. In tre quadri e un’alternanza spiazzante di voci e suoni. Per i musicofili e i musicologi, spiega Uvietta: “L’interazione fra linguaggi del passato e del presente, spesso per metamorfosi – ma talvolta anche per contrasto – è favorita dalla natura specifica del mio linguaggio musicale, decisamente post-tonale, talvolta persino seriale, ma predisposto al dialogo con la musica modale e tonale, perché da essa si è sviluppato organicamente e progressivamente”.

E visto che il Libro di Giuditta è un testo di testi, ecco che la Montage-Technik transita dalla fonte letteraria alla nuova opera, con un convincente assemblaggio che restituisce al pubblico non solo il plot, la trama, ma un’evoluzione psicologica della protagonista.

“In principio era il muro…” scandisce il commentatore (Ghia stesso)… “Un muro è una linea di confine, una dicotomia: “noi”, i “puri”; “loro”, gli “impuri” e gli “invasori”. Il muro colma anche la distanza tra la terra e il cielo. Come a Babele – ricordate?”. Ma una donna, Juditha appunto (il mezzosoprano Alda Caiello), oltrepasserà il muro che si frappone ancora alla forza brutale del re Nabucodonosor. Una donna, come canta Oloferne, che incarna una doppia natura, portatrice di una duplice e ambigua identità: “la cacciatrice astuta/ va tacita e nascosta/ la preda cacciatrice”.  Le meravigliose cantate “Es ist der alte Bund” e “Wo soll ich fliehen hin?” (BWV 106 e 5) di Bach e perfino una citazione dallo stupendo corale della Passione secondo Matteo – sacro prestato al profano – contrappunta l’impresa della Donna Antica, tra voci anch’esse ambigue (Oloferne ondeggia tra gli acuti del controtenore Danilo Pastore e la voce ombra del baritono Paolo Leonardi) e clangori di percussioni.

Nulla è come sembra, nella notte dove l’amore lascia il posto all’omicidio: e la decapitazione – antico e ancora contemporaneo strumento del Potere contro i deboli – diventa il grido di liberazione della Debolezza, che si riscatta dal lato oscuro e demoniaco della Forza. La scena finale della Donna Dubbiosa accade “notti e anni dopo, senza più alcuna bellezza, i capelli di cenere”. Juditha non assomiglia più alle libere donne di Israele e di Persia, i capelli al vento: è invecchiata e il trionfo della sua lama è un luccichio sempre più fioco. Altri assedi, altre stragi, altri trionfi hanno occupato il corso della storia. E allora ecco il dubbio, finale e radicale: “Un dilemma atroce squarcia i silenzi. Chi guidò l’ira? Fu Dio a servirsi di me? Fui io a servirmi di Dio?... Consolatemi, consolatemi mio popolo…”. Spente le luci dell’inaudito trionfo, resta allora solo una sete umanissima e primordiale: di conforto. Di consolazione. Una spalla su cui piangere. Un volto a cui confidare il dubbio. La risposta al dilemma dell’eroina J. non c’è. O soffia nel vento che, alle donne, scompiglia i capelli.