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Migranti, inizia la battaglia legale sul decreto Piantedosi: Medici senza frontiere fa ricorso contro la politica dei porti lontani

Inizia la battaglia legale contro il decreto Piantedosi. Tramite i propri legali, Medici senza frontiere ha presentato ricorso contro l'assegnazione di Ancona e La Spezia come "porto sicuro". "Tali provvedimenti amministrativi - fanno sapere dall'ong - fanno parte della nuova prassi che il governo sta imponendo a tutte le navi di ricerca e soccorso impegnate nel Mediterraneo".  

Indicazioni, hanno fatto sapere le ong, contrarie alle norme internazionali e alle leggi del mare,  a partire dalla convenzione di Amburgo, secondo cui il "porto sicuro" - e come tale riconosciuto - è quello raggiungibile nel "minore tempo possibile" dal luogo in cui inizia l'intervento di soccorso. Un'operazione - sottolineano dalla flotta civile, in punta di leggi internazionali - che si conclude solo quando i naufraghi sono a terra.  

Ma già nelle settimane precedenti all'approvazione del decreto, il centro di coordinamento e soccorso di Roma non solo ha iniziato a comunicare perentoriamente l'ordine di fare rotta verso l'Italia dopo un unico salvataggio, ma ha anche iniziato a indicare approdi sempre più a Nord.

La Spezia, Ancona, Livorno, Ravenna: da fine dicembre, le navi della flotta civile sono state costrette a navigare almeno tre o quattro giorni prima di poter far sbarcare i naufraghi salvati dal Mediterraneo.

"Adesso i tribunali competenti decideranno se è legittima l'assegnazione dei porti di Ancona e La Spezia per far sbarcare i naufraghi, nonostante fossero disponibili altri porti più vicini".  

Ufficialmente, si tratta di una prassi che si sarebbe resa necessaria per decongestionare gli scali del Sud Italia. Ma al di là di Lampedusa e - più di rado - Pozzallo in Sicilia, e Crotone e Roccella in Calabria,  fanno notare dalla flotta civile, non risulta che altri porti del Sud siano stati interessati da ulteriori arrivi di naufraghi. In più, nulla esclude il trasferimento via terra una volta completato lo sbarco.  

Al contrario, da anni è prassi consolidata. E non più tardi di qualche settimana fa ha generato un assurdo paradosso: i minori non accompagnati salvati da Geo Barents dopo lo sbarco a La Spezia sono stati costretti ad affrontare un ulteriore viaggio di 800 chilometri in autobus per raggiungere il centro d'accoglienza di Foggia. Traduzione, dopo quattro giorni di navigazione verso l'estremo Nord, sono stati costretti ad un altro giorno abbondante di viaggio per tornare a Sud.  

Per la flotta civile, l'ennesima prova della strategia del governo Meloni, mirata solo a ostacolare le operazioni di soccorso, moltiplicando i costi delle missioni. "Vogliono allontanare le navi umanitarie dalla zona di ricerca e soccorso senza pensare a nessun altro meccanismo sostitutivo", ha detto a più riprese Juan Matias Gil, capomissione di Medici senza frontiere da quando il decreto è entrato in vigore. "Questo decreto di fatto prevede di mettere ganasce alle ambulanze e chiuderle in garage per un tempo indefinito", ha commentato invece il presidente di Sos Méditerranée, Alessandro Porro

Inutilmente nel corso delle ultime missioni le navi umanitarie hanno provato a invocare uno scalo più vicino. Solo Sea Eye4, che a bordo aveva naufraghi in gravissime condizioni, più due cadaveri ma nessuna cella frigorifera per preservarli, ha convinto Roma a tornare indietro sui suoi passi e indicare Napoli come porto sicuro, al posto di Pesaro.  

"Al nuovo governo italiano piace discutere del benessere delle persone soccorse quando rende il lavoro delle organizzazioni di soccorso in mare ancora più difficile. È ovvio che il governo non può preoccuparsi del benessere di coloro che sono stati soccorsi, altrimenti ci avrebbe assegnato come porto Pozzallo", avevano commentato da bordo. Da allora, sono state necessarie due evacuazioni mediche, ma per uno dei sopravvissuti alla traversata del Mediterraneo il trasferimento in ospedale sulla terraferma è stato vano. È morto poco dopo l'arrivo.  

L'ennesima vittima di una strage che da inizio gennaio conta già sessantasei vittime accertate. Numeri approssimativi. Perché con il Mediterraneo svuotato di navi di soccorso, potrebbero essere decine i naufragi di cui non si sa nulla. Nelle ultime settimane, i numeri conosciuti sono da bollettino di guerra.

Tra il 27 e il 29 gennaio, fanno sapere da Alarm phone, sono arrivate richieste di soccorso da dodici fra barchini e gommoni. "Tre sono riuscite a raggiungere Lampedusa, mentre quattro sono state intercettate dalla Guardia costiera tunisina o sono tornate verso la costa tunisina autonomamente a causa di problemi tecnici".

Di tutte le altre, non si ha notizia o è arrivata solo l'eco frammentata dell'ennesima tragedia. Almeno una barca si è capovolta al largo della costa di Louata, nel governatorato di Sfax: ventiquattro persone sono state soccorse dalla Guardia costiera tunisina nella notte tra il 28 e il 29 gennaio, tredici persone sono disperse.  

"Ci è stato, inoltre, riportato che, nella stessa notte, la Guardia costiera tunisina ha intercettato un totale di 119 persone al largo delle coste di Mahdia e delle Isole Kerkennah", fanno sapere da Alarm Phone. Non si sa cosa ne sia stato di loro, così come nulla si sa delle ventidue persone trovate senza vita in due differenti zone della costa tunisina domenica 29 gennaio.

"Ci è stato poi riferito il capovolgimento di un'imbarcazione con 41 persone a bordo, tra cui 15 donne e due bimbi di 1 e 6 anni, che avrebbe causato altre 20 vittime", si legge nel report dell'associazione. Non era fra i barchini che avessero chiesto aiuto, oggi è impossibile dire quanti naufraghi fossero a bordo. "Possiamo dunque immaginare che il numero di persone morte o scomparse sia ancor più alto". Congetture a cui potrà rispondere solo il mare, se e quando ne restituirà i corpi.