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Ogni libro di Annie Ernaux è un pezzo di storia di tutti noi

Accendo il telefono appena atterrata da un volo internazionale e Annie Ernaux ha vinto il premio Nobel. In quest’ora trascorsa dalla partenza all’atterraggio si è rifondato il mondo, è successa una cosa bellissima ed epocale, e le prime cose che penso sono lallazioni che pigio su questo telefono, dato che non ho con me nemmeno un computer: Ernaux è una donna che scrive di sé e del mondo, come tante, certo, eppure in un modo che è diventato straordinariamente iconico.

Ogni volta che appare un suo libro è come se fosse restituito un pezzo di storia, non di storia delle donne ma della storia di tutti, raccontata però da una donna. Una donna che ha fatto letteratura di ciò che le è successo, anche del femminismo, inventando una sua personale postura di militanza letteraria che discende da Simone de Beauvoir ma la tradisce in una nuova forma e anche in una nuova epoca.

Ernaux è una scrittrice che ha capovolto ogni casella in cui è stata incastrata, a partire dalla sua scrittura, frettolosamente definita chirurgica o, peggio ancora, fredda da chi non riesce a vedere quanto fuoco ci sia dentro la ricerca viscerale e inesausta della parola giusta. Non la più bella, non la più d’effetto, ma la parola che arriva al termine di una ricerca carnale e razionale insieme. Ernaux scrive con il corpo, un corpo che è stato di figlia, di madre, di non-madre, di amante, di moglie.

Un corpo venuto al mondo in sostituzione di un’altra bambina morta, come lei stessa ha raccontato (L’altra figlia); un corpo che ha attraversato l’adolescenza ritenendo doveroso inondarla di spudoratezza e di vergogna (Memoria di ragazza); che ha interrotto una gravidanza quando era illegale farlo (L’evento) e che si è messo nei panni, quindi nei corpi, di entrambi i genitori, la madre (Una donna) e il padre (Il posto), per ripercorrerne la storia attraverso gli stessi passi, ma all’indietro, con l’esattezza e la colpa di chi ha tradito la propria classe sociale.

Perché Ernaux, altrettanto erroneamente scambiata per una narratrice dell’intimismo, è in realtà una scrittrice che non prescinde mai dalla consapevolezza, oggi non così frequente, della specificità delle classi sociali e delle possibilità grandi ma schiaccianti della mobilità tra esse. Così Annie Ernaux polverizza la retorica, l’epica del riscatto sociale. La scrittura non è riscatto: è un tradimento del posto da cui si viene, eppure se non ci fosse non ve ne sarebbe racconto.

Scrivo queste righe su di lei, lo ammetto, presa da una gioia elettrizzante, quella di quando si festeggia insieme una grande scrittrice e una grande persona.

Nel 2016, quando il mio primo romanzo, “Gli anni al contrario”, uscì in Francia, chiesi all’editore francese di inviarlo ad Annie Ernaux. Era un sogno che ritenevo più che altro un po’ infantile, un desiderio mio di poter sognare che la mia scrittrice contemporanea preferita sfiorasse un mio libro anche solo per cestinarlo. Poi non ci pensai più. Non avrei mai pensato che lei potesse davvero leggerlo e rispondermi con un biglietto scritto di suo pugno. Mai. E invece accadde esattamente questo, pochi mesi dopo.

Così quando poi nel 2018 scrissi il mio secondo romanzo, “Addio fantasmi”, chiesi con un po’ più di coraggio di farglielo avere in anteprima. Mi accolse a casa sua, vicino Parigi, e discutemmo a lungo in un bellissimo dialogo che fu pubblicato sull’inserto culturale di un quotidiano.

Avevo incontrato tanti scrittori fino a quel momento e in nessuno avevo incontrato una simile attitudine alla curiosità e all’ascolto. Ernaux viveva in una casa accogliente e discreta, immersa nel verde, piuttosto isolata, lontana dalla città ma non così tanto da porsi presuntuosamente come eremita. Viveva nel mondo, ma distaccata quanto bastava per osservarlo con la giusta distanza.

Nella sua biblioteca c’erano diversi autori contemporanei, anche italiani. Parlammo soprattutto di Cesare Pavese, condividendo l’amore per la sua lucida tristezza, e parlammo anche di come guardare dentro la vergogna può portare al punto più vertiginoso della scrittura. Ridemmo anche molto, per piccole cose confidenziali: raramente mi sono sentita così a mio agio con qualcuno così importante, anche se poco prima di partire per la Francia ero talmente emozionata che corpo e psiche mi avevano fatto uno scherzo facilmente decifrabile. Mi era del tutto sparita la voce. Avevo preso l’aereo imbottita di cortisone, ma il mio parlare era comunque “sbrafato”, come si direbbe in siciliano.

Sono qui in aeroporto, in mezzo alla folla e ai rumori, un po’ troppo per scrivere qualcosa di sensato. Nell’attesa della coincidenza chiudo gli occhi e scandisco la mia vita attraverso i libri di Annie Ernaux.

Ce n’è uno solo che mi manca tra quelli tradotti in italiano, è l’ultimo e ho voluto conservarmelo per un momento speciale. Lo inizierò domani, o forse stanotte, ora che tutto brilla e anche quel titolo si può scandire dandogli un significato completamente diverso: guarda le luci, amore mio.