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Otto anni fa ci lasciava Filippo Azimonti: quel combinato disposto tra passione per il giornalismo e bravura da capo

In certi vecchi film americani c'era a volte una figura di capocronista, con le mezze maniche e la visiera di celluloide verde. Ecco, Filippo Azimonti, che se n'è andato ieri a soli 62 anni, era un po' così. Con la differenza che quello del film di solito era un cinico figlio di buona donna, mentre Filippo era buono. Fin troppo. In 23 anni che ha lavorato a Repubblica non ci si ricorda di averlo mai visto litigare con qualcuno, alzare la voce, dar fuori di matto. Era il prototipo di quelli che una volta si chiamavano "culi di pietra" e ora deskisti. Quelli che non scrivono, ma stanno in redazione: organizzano il lavoro, distribuiscono i servizi, impaginano, fanno i titoli.

Filippo in questo era eccezionale. Intanto - cosa importantissima soprattutto nell'era pre-cellulari - c'era sempre: arrivava la mattina presto (in tram, era un grande viaggiatore di tram) con il suo borsone a tracolla e aveva già il quadro delle notizie di giornata. Poi si attaccava al telefono e intanto leggeva i giornali: tutti, compresi quelli locali, e da cima a fondo. Passava anche le agenzie, e difficilmente gli sfuggiva qualcosa. Se lo chiamavi, al telefono rispondeva: "Eccolo".

Oggi che i giornali hanno - diciamo così - perso parte del loro fascino, è perfino difficile spiegare come siano stati per Filippo la passione di una vita. I soldi e la carriera non sono mai stati al primo posto per lui. Ma stare dentro a un giornale, da mattina a sera un anno dopo l'altro, lavorare a metterlo insieme e rileggerlo il giorno dopo per poi ricominciare, quello era il suo amore totale. Aveva cominciato (con suo padre Italo) a vendere macchine per la stampa. Poi a metà degli anni Settanta era stato fra i fondatori di Radio Milano Centrale, che si trasformò in Radio Popolare, una realtà storica dell'informazione di sinistra milanese. Nel frattempo collaborava con pezzi sul cinema, l'altra sua grande passione, con il Quotidiano dei lavoratori. Lavorò poi al quotidiano Reporter, sempre nell'inserto culturale, e ancora a Italia Oggi. Nel dicembre del 1987 fu assunto a Repubblica.

Ha lavorato alle pagine milanesi, e poi all'ufficio centrale che teneva i rapporti con la redazione romana e organizzava il lavoro di cronisti e inviati. Era uno di cui ci si poteva fidare a occhi chiusi, e che non ti lasciava mai nelle peste. E la sua presenza aveva un tratto di simpatia e di umanità che lo rendeva unico. C'era sempre per discutere una notizia, ma anche un libro (amava la fantascienza e i volumi di storia) o un film (quelli di guerra, soprattutto), o per parlare di politica o per stare insieme a tavola e scherzare. Il suo grande senso dell'umorismo non sconfinava mai nel sarcasmo: non ci si ricorda di avergli mai sentito dire una cattiveria, nemmeno su quelli che se la meritavano. Sulla sua vita privata era di un riserbo quasi maniacale, perfino eccessivo se pensiamo che ci ha tenuto nascoste le sue condizioni di salute.

Raccontato così - sessanta righe in cronaca - Filippo può sembrare un uomo d'altri tempi. E invece aveva una curiosità inesauribile per le novità: aveva capito e praticato subito con entusiasmo infantile il mondo dei computer che ribaltava i giornali, e poi la comunicazione dei social network. Quindi riusciva a tenere insieme l'aggiornamento del suo blog e la rubrica "50 anni fa" che lo spingeva a lunghe immersioni nelle raccolte dei giornali alla biblioteca Sormani. E tutto con il suo personale culto della notizia curiosa, della precisione, della ricostruzione storica. Una volta in pensione aveva continuato a tenere la rassegna stampa di Radio Popolare, che faceva benissimo da vecchio appassionato lettore di giornali. Adesso che se n'è andato, così in fretta, noi che l'abbiamo conosciuto e amato facciamo davvero fatica a crederci. Ciao Filippo, che brutto scherzo.