Italy
This article was added by the user . TheWorldNews is not responsible for the content of the platform.

Piersandro Pallavicini: «Io e le mie ossessioni»

Nel momento in cui ci sentiamo Piersandro Pallavicini è nella sua casa di Pavia, sfiancato da una sessione di esami che definisce «pesante» nonostante ammetta con una certa soddisfazione che i suoi studenti siano stati bravi. Oltre che romanziere, Pallavicini è infatti professore all'Università di Pavia dove insegna Chimica dal 1994, un lavoro che dice di amare molto e al quale ha deciso di affiancare da quasi vent'anni la scrittura dando vita a libri di straordinario impatto emotivo e narrativo accumunati da un'ironia sagace e a tratti tagliente, da uno sguardo un po' cinico e un po' sarcastico in grado di spezzare il tono oscuro di certe trame. L'ultima è quella contenuta all'interno de Il figlio del direttore, il suo nuovo romanzo pubblicato da Mondadori incentrato su un uomo di sessant'anni, Michelangelo Borromeo, collezionista e proprietario di una libreria d'essai di Pavia che un giorno, di punto in bianco, riceve una telefonata dal numero di suo padre, morto due anni prima. Partendo da questo evento inatteso Piersandro Pallavicini scava all'interno delle paure e delle ossessioni di un uomo omosessuale che, insieme a una girandola di personaggi, ricostruisce i pezzi della vita di un genitore di cui pensava di sapere tutto ma di cui invece si rende presto conto di non aver mai saputo niente, intrecciando neanche troppo da lontano qualcosa successo allo stesso Pallavicini un po' di anni fa. 

Sia sincero: è mai successo che uno studente abbia cercato di arruffianarsi il professore portando all'esame una copia del suo romanzo?
«Oggi non è successo: più crescono e più i ragazzi mi sembrano ingenui e privi di queste furbizie. Altri anni venivano a lezione brandendo il libro, il che, dopo l'esame, è anche ammissibile. Prima è un arruffianamento incredibile».

Uno che non cede agli arruffianamenti è sicuramente Michelangelo, il protagonista de Il figlio del direttore che si definisce con tre aggettivi: «scienziato, miscredente, misantropo». Valgono anche per lei?
«Scienziato sì, sono io. Miscredente anche, perché sono scevro da superstizioni e scaramanzie e non credo in Dio: viviamo e finiamo in polvere. Più che misantropo, invece, sono un po' orso, molto timido. Questo mi porta a frequentare poco le altre persone».

Il che cozza un po' con le presentazioni dei libri organizzate dalle case editrici, oppure no?
«Rubo le parole al mio personaggio: quando sai che le persone ti devono ascoltare perché solo lì allora la timidezza cade, perché sai che il pubblico è comunque interessato a quello che avrei da dire. Ho sempre paura di annoiare gli altri: alle presentazioni mi sento molto libero di parlare, non ho mai ritrosie».

Sulle presentazioni dei libri lei ha studiato anche delle strategie: pensa, infatti, che sia meglio avere un solo relatore.
«È un dato sperimentale che ho raccolto da buono scienziato: quando ce ne sono 2 o 3 è un macello perché non c'è un filo conduttore e spesso i due si intralciano tra loro sottraendo tempo allo scrittore. Per me è un errore».

Piersandro Pallavicini «Io e le mie ossessioni»

Francesca Pallavicini

Quanto bisogna essere egocentrici per scrivere un libro, secondo lei?
«Tantissimo, perché devi credere in te stesso, devi essere convinto di saperlo fare e di avere qualcosa da dire. Se non hai un'alta auto-considerazione di te e hai dubbi su quello che produrrai c'è un problema, anche se penso che uno scrittore debba essere più autoriferito che egocentrico».

Tornando alle presentazioni, lei su Facebook ha ricordato in un post diventato poi virale una volta in cui non si presentò nessuno. Come andò?
«Era successo un'altra volta a Bologna, ma era il mio primo libro lo presentai e l'editore era piccolo. Mi è successo di nuovo con uno degli ultimissimi romanzi con Feltrinelli: mi è capitato di andare ad Alessandria, cambiare tre treni per arrivare, e trovarmi davanti una sola persona. Lì mi sono detto: basta, non lo farò mai più».

Come si è tirato su?
«Un calice di vino può essere utile. A parte tutto, viene subito fuori il debito che senti di avere con le persone che sono venute e cerchi di fare del tuo meglio come se ci fossero mille persone».

Essere uno scrittore part-time come lei pensa che sia un vantaggio?
«È utilissimo, perché non hai l'ansia di dover pubblicare e di dover vendere. Se uno fa lo scrittore e basta non può smettere di pubblicare: chi riesce a vivere della sola vendita di libri in Italia è costretto a farne uno all'anno e di vendere almeno 50mila copie. Io ho la fortuna di fare un lavoro che amo che mi permette di tenere il ritmo che mi pare e di scrivere quello che voglio».

Il giardino delle scrittrici nude, il meraviglioso romanzo scritto per Feltrinelli che ha preso in giro il mondo dei premi letterari italiani, pensa che avrebbe potuto scriverlo uno scrittore che fa solo quello nella vita?
«È probabile che alcuni scrittori che vivono di sola scrittura avrebbero potuto avere una paura fottuta di pubblicarlo per paura che qualcuno si risentisse. I premi vanno al di là della qualità del libro, ma bisogna stare attenti perché se fai incazzare le persone sbagliate quelle non ti votano più ma, nel mio caso, non ho mai rischiato di finire in un premio così».

Ci ha mai sperato?
«Ci ho sperato con Romanzo per signora e, soprattutto, con Una commedia italiana: avevamo provato il Campiello, ma non è andata».