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Quando i fascisti organizzarono un colpo di Stato alla luce del sole: voci e preparazione della marcia su Roma

Penso che ormai è inutile preoccuparsi di mantenere il segreto sui nostri viaggi. Tanto domani tutta l’Italia né sarà informata” (dal Diario di Italo Balbo, 26 ottobre 1922)

Noi fascisti, non intendiamo andare al potere per la porta di servizio; noi, fascisti, non intendiamo rinunciare alla nostra formidabile primogenitura per un piatto miserevole di lenticchie ministeriali” (dal discorso di Napoli di Benito Mussolini, 25 ottobre 1922)

TRENTO. Nell’estate del 1922, la presa del potere da parte dei fascisti era questione all’ordine del giorno. D’altronde, gli stessi fascisti non nascondevano affatto i loro propositi eversivi, sbandierati da anni (QUI un esempio) ma dimostratisi più concreti con l’attacco frontale alle istituzioni liberali; una dopo l’altra, dalla primavera all’autunno, numerose città erano state occupate militarmente, le giunte antifasciste abbattute, i palazzi del potere assediati e invasi dalle camicie nere.

Ferrara (QUI l’articolo), Bologna (QUI l’articolo), Cremona (QUI l’articolo), furono alcune fra le tante città (QUI l’articolo) sconvolte da azioni militari ben organizzate, concluse in qualche caso anche con scontri fra forze dell’ordine e fascisti. La proclamazione dello sciopero generale da parte delle organizzazioni di sinistra, tra il luglio e l’agosto del ’22 (QUI l’articolo), offrì il pretesto perfetto per affiancare a un’ennesima ondata di violenza nei confronti delle opposizioni un mirato attacco ai luoghi dello Stato, dalle prefetture alle caserme. Poche furono le eccezioni, Parma su tutte (QUI l’articolo), di città compattamente schierate contro gli squadristi.

Di colpo di Stato, in questa fase, si vociferava non poco. Un primo discorso su un possibile cambio di regime da parte fascista venne fatto nel corso della riunione del comitato centrale del partito, tenutasi a Milano il 13 e 14 agosto. Di contro a ogni prassi in materia di golpe, l’ipotesi della conquista fascista del potere aleggiò sul Paese a forza di esplicite minacce da parte dei principali rappresentanti del partito – spesso prese sottogamba dall’opinione pubblica moderata come dagli antifascisti.

Sulla mancata segretezza dei piani fascisti, scrive la storica Giulia Albanese in La marcia su Roma: “La scelta di questa strategia va messa in relazione con le particolari circostanze politiche in cui l’avvenimento si realizzò: le forze a disposizione dei fascisti non erano tali da consentire, né far sperare, un esito vittorioso nell’eventualità di uno scontro, qualora lo Stato avesse fatto ricorso a tutte le sue forze per contrastarli”.

“Per questo, il discorso a metà segreto e a metà pubblico relativo alla marcia, accompagnato, da una parte, dalle dichiarazioni di fedeltà al sovrano e, dall’altra, dalle dichiarazioni nei confronti dell’esercito, serviva a preparare il terreno – come si vedrà più avanti – per una sollevazione in cui né il sostegno del sovrano né quello dell’esercito erano garantiti, pur essendo assolutamente necessari. Lo stesso frequente ricorso alla violenza nella retorica fascista, come pure il continuo tono di sfida nei confronti dello Stato, rendevano meno problematica l’assenza di segretezza nel programmare la marcia su Roma”.

A sgombrare il campo da ogni possibile ambiguità fascista nei confronti della monarchia, ci pensò Benito Mussolini. Nel discorso a Udine del 20 settembre ’22, il capo del partito inseriva idealmente il fascismo nel solco del Risorgimento, prefigurando un glorioso futuro per Roma e l’Italia. La fedeltà al monarca veniva poi fattivamente dimostrata in iniziativa come l’intitolazione alla Regina Elena dell’Elisabethschule di Bolzano, nel corso della marcia sulle città della Venezia Tridentina (QUI l’articolo).

Giunti nel mese di ottobre, gettati i ponti verso monarchia ed esercito, in cui s’annidavano non pochi sostenitori e simpatizzanti del fascismo, i propositi eversivi presero forma. Sulla possibile data, Mussolini e i dirigenti giocarono d’anticipo, cercando di strappare al debole governo Facta ogni possibilità di rafforzare il proprio seguito. Il 4 novembre, anniversario della vittoria nella Grande Guerra, il presidente del Consiglio aveva infatti previsto una grande manifestazione in cui coinvolgere l’intero arco nazionalista.

La scelta di fine ottobre risolse dunque ogni possibile grattacapo, evitando rischiose marginalizzazioni del movimento. Il 16 ottobre, in un incontro a Milano, Mussolini avviò il discorso sul piano operativo in compagnia di Balbo, De Bono, De Vecchi, Bianchi, Attilio Terruzzi, i generali Gustavo Fara e Sante Ceccherini e il capo dei fascisti romani Ulisse Igliori. Furono i primi quattro, nominati “quadriumviri della rivoluzione fascista”, a definire in un’ulteriore riunione, tenutasi nella città ligure di Bordighera, il piano della prossima marcia.

Forti di un’organizzazione militare consolidata e definita, tanto che a inizio mese, a mezzo stampa, ne era stato pubblicato il regolamento, i fascisti si preparavano così a convogliare le proprie forze su Roma; una città che nei mesi precedenti, da parte sua, aveva dato prova non solo di scarsa penetrazione fascista, ma di una presenza massiccia di oppositori. A prepararne la presa, pertanto, serviva una grande dimostrazione di forza volta a convincere le classi dirigenti liberali a salvare il salvabile, imbarcando finalmente il Pnf in funzioni di governo.

Così effettivamente avvenne e come lo vedremo nelle prossime puntate di “Cos’era il fascismo”, avvicinandoci alla fatidica data del centenario della marcia su Roma. Un’ultima questione, però, si pone a fronte di ciò che è stato raccontato finora: quale fu la reazione dello Stato ai propositi di colpo di Stato, tutt’altro che tenuti all’oscuro?

Giocando su un tavolo già ampiamente falsato da anni di connivenza e debolezza, a posteriori risulta piuttosto chiaro come il fascismo abbia avuto gioco facile nel prendersi l’agognato ruolo di governo. Eppure, in quelle tribolate settimane alla vigilia della marcia, la situazione appariva ben più sfumata: esercito e prefetture, infatti, si mossero fra due opposti poli di rigore nella gestione dell’ordine pubblico e di aperto sostegno ai fascisti. Così avvenne, dunque, che in alcune città si assistette allo scontro tra camicie nere e forze di pubblica sicurezza. Così avvenne che la preponderante forza dello Stato a Roma non si prestò allo scontro – grazie all’intervento determinante del re – con le raccogliticce squadre fasciste.

Se il fascismo, con il suo linguaggio altisonante e la sua retorica pomposa, venne preso sottogamba da un’opinione moderata convinta di poterlo controllare, a determinare l’esito della marcia concorse indubbiamente un humus su cui l’ideologia fascista ebbe un facile attecchire. Spiega ancora Albanese: “E’ evidente allora come l’esistenza di una cultura autoritaria sia stata alla base non solo di una parte consistente delle scelte politiche della classe dirigente del Paese, ma anche, probabilmente, di gran parte delle scelte dell’opinione pubblica moderata: è questa la ragione per cui quanto stava avvenendo non fu reputato degno di nota, e d’altronde può aver influito in questa scarsa considerazione il fatto che lo Stato liberale italiano aveva fatto frequentemente ricorso a misure profondamente illiberali, sia nei confronti di associazioni politiche sia di singole persone, oltre che della stampa”.