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«Vi racconto una storia»

Questo articolo è pubblicato sul numero 48 di Vanity Fair in edicola fino al 29 novembre 2022

Guida per riconoscere i suoi santini: «Mi piaceva tantissimo X-Files. Dawson’s Creek il pomeriggio era un’alternativa divertente allo studio. I segreti di Twin Peaks l’ho recuperata più avanti. Con Lost è arrivata la folgorazione per le serie». Che poi sono diventate la sua vita e l’hanno portato nel paradiso dello streaming. Ludovico Bessegato, milanese, classe 1983, è lo showrunner italiano che tutti vogliono da quando ha creato l’ormai cult Skam Italia, brillante racconto di un gruppo di liceali romani e adattamento local della versione originale nata in Norvegia, oggi alla quinta stagione su Netflix. 

Figlio di un attore teatrale e di una storica dell’arte, ha sempre coltivato il sogno di raccontare storie sullo schermo, «ma mi sembrava rischioso non avendo grandi contatti e non volendo gravare all’infinito sui miei genitori. Quindi, finito il liceo, dopo un bagno di realtà, mi sono iscritto a Giurisprudenza. Il primo giorno di lezione, però, ho ricevuto la telefonata di un amico di amici di famiglia: stava cercando un assistente di teatro, l’ho interpretato come un segno». L’interpretazione è giusta. 
Da lì Bessegato entra nel team creativo di una casa di produzione romana, Magnolia, diventata poi Cross Productions, lavora a progetti per la tv generalista: Rocco Schiavone con Marco Giallini, Il cacciatore con Francesco Montanari. Fino a Skam Italia

L’ultima creatura di Ludovico Bessegato è su Prime Video e si intitola Prisma: altro teen drama, altro successo in streaming di questo autunno caldo, che precede un inverno ancora più caldo per le piattaforme; tra aumenti di prezzo degli abbonamenti, apertura alle inserzioni pubblicitarie e registi che prendono le distanze in difesa delle sale cinematografiche. 
Sono di pochi giorni fa le parole di Paolo Sorrentino all’International Film Festival di Marrakech: 
«Non voglio fare nessuna polemica, ho girato È stata la mano di Dio con Netflix, con cui mi sono trovato benissimo. Ma oggi le piattaforme stanno avendo il successo migliore, non hanno bisogno di me, di noi registi. Oggi voglio fare film per il cinema: le sale sono in crisi». La chiacchierata con Ludovico Bessegato si trasforma così in una riflessione sul suo mondo. 

Sorrentino fa bene?
«La questione è complessa. La fuga dalle sale sembra inevitabile se ne restano poche, sempre più periferiche, brutte, e al contempo vengono venduti televisori  con schermi giganti da 70 pollici e soundbar che non sono poi così distanti da quelli dei cinema. Non credo che ridurre il prezzo del biglietto sia la soluzione. Penso piuttosto che sia necessario ragionare su come ci aggreghiamo ora e studiare quei Paesi, tipo l’Inghilterra, dove le sale continuano a essere piene, anche dopo la pandemia e nonostante  la presenza delle piattaforme. Mi chiedo, per esempio: perché un film può andare in streaming, ma una serie non può andare al cinema e se ci va accade raramente? 
Sono convinto che creare degli eventi in sala con maratone di serie spettacolari come Il Signore degli Anelli - Gli anelli del potere o House of The Dragon, il prequel del Trono di Spade, funzionerebbe». 

E ci andrebbe?
«Sì».

Magari va già regolarmente al cinema nel tempo libero.
«La vera verità è che non guardo né tante serie né tanti film: mi limito al giusto per tenermi informato e per sapere che cosa sta uscendo in un dato momento. Sono stato un fanatico, non lo sono più. Passo ogni mia giornata, dalle 9 del mattino alle 8 di sera, a scrivere, a girare o a montare senza soluzione di continuità, spesso anche il weekend. Cerco di dedicare il tempo che mi rimane alla fidanzata, agli amici, agli incontri, a leggere, ad ascoltare podcast, a vedere documentari. A osservare il più possibile quello che sta intorno a me e non conosco, e a evitare di guardarmi dentro. È così che trovo le storie da portare in scena». 

Fuggendo da sé stesso?
«In effetti può sembrare una fuga. Ma il punto è un altro».

Qual è?
«Non credo nell’autofiction, nell’autorappresentazione, nel racconto ombelicale. Mi fa addirittura un po’ paura la tendenza a concentrarsi su di sé. Anche a MasterChef i giudici si incazzano perché un piatto non parla abbastanza del concorrente! Ma perché tutta questa richiesta di egocentrismo, di condividere i propri problemi? Io preferisco affrontarli in privato, con il mio analista, con i miei amici. E non mi va di sfruttare le disfunzioni che chiunque si trova a gestire nella vita per agganciare gli spettatori oppure la critica. Ho molto rispetto per le mie difficoltà, non voglio svenderle rendendole parte del mio lavoro. E non ho nemmeno la presunzione che possano diventare universali, riflettere lo spirito del tempo, come diceva Walter Siti (che ha introdotto il genere autofinzionale nella nostra letteratura, ndr). In più, desidero proteggere i miei affetti, me stesso. Sia chiaro, ho stima per chi sceglie l’autofiction fatta bene, alla Walter Siti appunto, come Nanni Moretti, che è il mio regista italiano preferito o quasi».