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American Born Chinese è la rivincita dei figli d’Oriente

American Born Chinese chi ama le graphic novel la conosce molto bene. Ad inizio millennio la creatura cartacea di Gene Luen Yang diventò in breve un caso letterario, aprì le porte ad una discussione tuttora in atto su quale sia la situazione dei “figli d’Oriente” nati in Occidente, le seconde, terze generazioni. Da quel piccolo capolavoro, Disney+ ha tratto una serie tv molto intrigante, colorata, spassosa ma anche capace di affrontare i suoi vari temi con originalità e profondità. Il tutto con un cast che annovera alcuni tra i volti più iconici del cinema made in Oriente. 

Un ragazzo perso dentro una grande avventura

Per Jin Wang (Ben Wang) le cose non potrebbero essere più complicate. Figlio di immigrati cinesi, è il classico esempio di nerd un po’ sfigato che di solito ricorderà l’adolescenza come uno dei periodi peggiori dell’esistenza. Come capita spesso a quell’età, Jin non si accetta per quello che è, vorrebbe essere diverso, un vincente, secondo i canoni molto occidentali della sua comunità, un super atleta spaccone. 
Ma la cosa non è che gli stia riuscendo tantissimo. A guastare il suo percorso di autodistruzione, arriva uno studente dall’estero, si chiama Wei-Chen ed è estremamente orgoglioso dell’essere cinese, ha una personalità molto forte, eccentrica e non sa cosa sia l’imbarazzo. Jin viene sostanzialmente obbligato dal preside a fare da “guida” al nuovo arrivato. In breve, egli scoprirà che Wei-Chen non è un ragazzo qualsiasi, ma nientemeno che il figlio del mitico Sun Wukong, meglio noto come Re Scimmia (Daniel Wu), ed ha bisogno di Jin per trovare una misteriosa pergamena, dalla quale dipende il destino stesso dell’universo. Sarà solo l’inizio di una straordinaria avventura nel corso della quale Jin si confronterà con il concetto di identità, cercherà di capire chi è veramente, ma soprattutto che le sue origini sono qualcosa di cui andare fiero. Il tutto tra combattimenti di kung-fu, divinità e demoni leggendari, e il concetto di “normalità” che va a farsi benedire, anche grazie ad una divinità come Guanyin (Michelle Yeoh), e un attore in crisi d’identità come Jamie Yao (Ke Huy Quan). 

Un mix gustoso di generi su una comunità sottoesposta

Impresa non da poco quella che si è preso carico Kelvin Yu, nel trasportare sul piccolo schermo quella graphic novel, che nel mondo giovanile ebbe un impatto grandissimo, proprio per il porre al centro del mirino la superficialità con cui la società americana in particolare, concepiva la sterminata e variopinta comunità asiatica. American Born Chinese non fa nulla per nascondere tale elemento, anzi ne fai il pilastro centrale di una narrazione che dipinge proprio i bianchi come paternalistici, ignoranti, limitati. 
Lo fa mostrando l'assurdità dei cliché della loro visione, ed è una questione non solo americana, ma soprattutto americana diciamocelo, data la loro incapacità di cogliere la complessità delle comunità non wasp. Fin dall'inizio anche nel cinema, del resto, si è cercato di descrivere agli asiatici come un solo organismo anonimo, al massimo buffo, quando invece storia, tradizioni, lingua parlavano di una ricchezza sterminata. American Born Chinese tutto questo però lo fa arrivare all'interno di un racconto che è un variopinto esperimento di genere, ha molte cose in comune con i classici cult degli anni ‘80 ma poi si spinge verso altri lidi, anche in virtù della sua forza visiva. Il film di formazione si incrocia con una sorta di sperimentazione di genere in cui il fantasy, il film di arti marziali, la commedia, tutto quanto viene unito assieme per parlarci di un ragazzo che è nella difficile età in cui ci si guarda lo specchio per trovare una sensazione positiva. Si ride ma ci si trova anche a riflettere su quanto, dopo tanti secoli, in realtà sappiamo poco, pochissimo di questa comunità, basti pensare all'Italia, dove topo tanti anni e nonostante la centralità nel tessuto economico, essa rimane quasi invisibile.

Una serie simbolo del nuovo corso produttivo

American Born Chinese è un perfetto prodotto trasversale. Non potrà infatti non piacere anche al pubblico più grande, perché tanti gli omaggi sono ai classici di quel cinema, che da Bruce Lee in poi ha rivoluzionato il concetto di azione, reso l'esotico un po’ più familiare. Michelle Yeoh, Ke Huy Quan e Daniel Wu sono gli innesti di maggior fama, si divertono a divertire, si mettono al servizio di un prodotto che gioca in un certo senso anche con la sacralità, o presunta tale, della stessa cinematografia di riferimento. O meglio, di come essa viene descritta dentro e fuori il suo stesso ombelico, basti pensare ai tanti omaggi qui presenti anche al wuxia, così come alla rappresentazione stereotipata americanocentrica. Contemporaneamente, American Born Chinese ci porta a riflettere su come, anche grazie ad Everything Everywhere All At Once, ora tutto sia cambiato nel mercato cinematografico e televisivo americano. Questo riguarda non solamente la commistione di genere, di cui la A24 con il suo iter produttivo è diventata simbolo, perseguendo la volontà di dare al pubblico qualcosa di estraneo ad una categorizzazione rigida, ma come proprio la rappresentazione della comunità orientale ormai sia diventata la nuova grande protagonista. Ad essere cinici, anzi realisti, si può guardare alla nuova riapertura del mercato cinematografico cinese (il più ricco del mondo) alle nuove proposte estere, come il vero motivo trainante, visto che ad Hollywood e dintorni non si fa nulla gratis. Dove ci porterà tutto questo, dopo la visione radicale degli ultimi anni in favore della comunità afroamericana, è difficile da prevedere; quel che è certo è che dopo Chang Can Dunk, RedShang ChiAmerican Born Chinese è il nuovo step di una narrazione che mira a ribaltare la situazione per un’intera comunità.  

Voto: 7

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