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Donato Bilancia che rapinava per rapinare e uccideva per uccidere

Dopo aver ucciso Carla Scotto e Maurizio Parenti, Donato Bilancia salì sul loro letto e iniziò a ballare. Immaginava una musica e la seguiva nella sua testa, come se fosse al centro di una discoteca. Aveva sempre amato ballare. Quel giorno scoprì che amava anche uccidere.

Ammazzò biscazzieri, sconosciute incontrate sui treni, prostitute, cambiavalute, metronotte. Iniziò per rabbia e per soldi, continuò perché era bravo a farlo, perché era la sua passione. Donato Bilancia uccideva perché quello era il suo hobby.

Lo fece con una cadenza quasi sfinente, come se inseguisse un record: diciassette persone dall’ottobre 1997 all’aprile 1998. È stato un serial killer, assassino seriale o assassino a catena, secondo una definizione che aveva dato di quel tipo di criminale l’Fbi già negli anni Settanta.

Donato Bilancia rientra nella categoria di quelli che vengono chiamati «serial killer missionari» perché era convinto di dover compiere una missione, ma è stato anche un cosiddetto «serial killer edonista» perché provava piacere nell’uccidere.

È stato un «assassino seriale dominatore» perché esercitava totale controllo sulle sue vittime, ma anche un «serial killer esecutore di vendetta» perché aveva fissazioni che lo tormentavano, torti che pensava di avere subito o che forse aveva davvero subito e per i quali cercava una rivincita. Uccise anche perché era sessualmente represso.

Davanti ai giudici cercò di passare per incapace di intendere e di volere. I periti che ebbero a che fare con lui dissero invece che era lucido, perfettamente in grado di sostenere un processo. Affetto, questo sì, da un inguaribile narcisismo. «Incapace di tollerare il calo d’attenzione, l’uscita di scena, non ha altri oggetti di desiderio che sé stesso» scrissero i periti.

Uno degli psichiatri annotò: «Donato Bilancia rapina per rapinare, uccide per uccidere. Lo fa per il gusto di farlo, perché è facile». Coloro che redassero le perizie psichiatriche concordarono che ci fosse un filo preciso, forte e visibile, che univa tutta la sua vita, dall’infanzia fino alla fine. Come se si fosse prodotta una serie di eventi quasi inevitabile, una catena solida e non spezzabile iniziata tanto tempo addietro.

Nel primo interrogatorio dopo l’arresto, avvenuto il 6 maggio 1998, spiegò: «Intendo riferirmi ai fatti delittuosi di cui mi assumo la responsabilità nella loro successione cronologica; mi riservo in un secondo momento di spiegarne le motivazioni che adesso non so dare».

Donato Bilancia era nato a Potenza, il 10 luglio 1951. Quando aveva quattro anni la sua famiglia si trasferì prima nella zona di Asti e poi a Genova. Da bambino, a scuola, diceva di chiamarsi Walter: Donato era un nome troppo meridionale, si vergognava. Quando parlò della madre agli psichiatri che lo incontrarono in carcere dopo l’arresto, ricordò soprattutto un episodio: lei che metteva sul balcone il materasso che lui aveva bagnato, da bambino, durante la notte.

Come se anche i vicini dovessero sapere, e poi tutto il quartiere: una sorta di pubblica vergogna da esporre. Non ricordava con piacere nemmeno il padre, Rocco: di lui raccontò che, quando tornavano d’estate in vacanza in Basilicata, lo faceva spogliare davanti alle cugine per far vedere quanto poco fosse sviluppato. Dei genitori Donato Bilancia disse: «Avevano due cervelli che sarebbero stati dentro un coriandolo».

Iniziò con piccoli furti già da piccolo: abbandonò la scuola dopo essere stato bocciato per tre volte in terza media. Eppure, era intelligente, veloce. Iniziò a frequentare gente più grande, e con loro a rubare. Nel 1965 lo arrestarono mentre rubava una Vespa, lo rilasciarono. L’anno dopo fu preso ancora durante un furto: questa volta finì nel carcere minorile.

Partì militare nel 1971, prima a Casale Monferrato, in provincia di Alessandria, poi ad Asti. Fu esonerato dopo qualche mese per motivi di salute. Tornato a Genova, nel 1972 rubò un camion pieno di panettoni. Tentò di rivenderli davanti a un supermercato, lo arrestarono di nuovo.

Uscito dal carcere conobbe quello che definì «il grande amore della sua vita». Non ne rivelò mai il vero nome. Allo psichiatra Vittorino Andreoli, che lo incontrò in carcere, disse che quella donna si chiamava Ornella. Non era vero: Ornella era il nome della moglie del fratello, una donna che Donato Bilancia ha odiato con tutte le sue forze.

Nel 1974 fu arrestato a Como per detenzione di armi da fuoco, poi lo fermarono di nuovo in Francia, quattro anni dopo, per una serie di furti. Finì nuovamente in carcere nel 1981 per rapina e sequestro di persona di due coniugi nell’entroterra genovese. Era entrato in casa loro, con due complici, per rubare.

Fu quando uscì dal carcere che «il grande amore della sua vita» lo lasciò. Fu colpa di Ornella, disse poi lui. Era stata lei, la moglie del fratello, «a convincerla che con me non poteva avere un futuro». Sostenne anni dopo: «Da allora le cose cambiarono. Decisi di trattare tutte le donne con cui avrei avuto a che fare come puttane».

Si mise in proprio: niente più complici. Si specializzò in furti negli appartamenti, divenne un «invasore domestico».

Intanto frequentava le bische di Genova, lo conoscevano un po’ tutti: lo chiamavano Walterino. Era sempre accigliato, lo sguardo rabbioso, la voce roca per le decine di sigarette Marlboro fumate. Alto meno di 1,75, robusto, gli piaceva avere quella voce, disse che gli dava un tono da duro. Si vestiva bene, aveva quasi sempre la cravatta, spesso una camicia bianca.

Con le donne andava male. Scrisse nel suo memoriale: «A me sono sempre piaciute le donne belle, anzi molto belle, però a quei tempi mi accontentavo anche di quelle che molto belle non erano perché pensavo che non potessero lamentarsi delle mie prestazioni».

Non ebbe mai relazioni di lunga durata: «È certo che non rimanevo entusiasta quando mi accorgevo che la partner mi scaricava. Ma ciò che mi feriva di più erano il modo e le parole che utilizzava per far cessare il rapporto».

Il 17 marzo 1987 il fratello Michele si uccise, assieme al figlio Davide, che aveva quattro anni, gettandosi sotto al treno Ventimiglia-Genova, a Genova Pegli. Si suicidò, lasciò detto, perché, dopo il divorzio, il figlio era stato affidato alla moglie Ornella. Fu Bilancia a riconoscere i corpi all’obitorio, pagò il funerale e le spese di sepoltura. L’odio per la cognata divenne viscerale, profondo, si estese a tutte le donne.

Nel 1990 fu denunciato per aver minacciato e picchiato una prostituta. Lo stesso anno un’auto su cui viaggiava, guidata da una donna, andò a sbattere contro un palo. Bilancia restò in coma per due giorni, per mesi dovette poi camminare con un supporto. Tre anni dopo fu denunciato per molestie sessuali da una commessa del negozio di abbigliamento intimo che aveva aperto a Genova, in piazza Corvetto.

Con i furti guadagnava molto: comprò una casa a Savona, sul mare, poi la perse giocando a poker. Nel 1996 dilapidò moltissimi soldi nelle bische clandestine. Dovette lasciare l’appartamento che aveva acquistato in centro, a Genova, e andò a vivere in un sottoscala in via del Fossato.

Nel giugno 1997 si alzò dal tavolo dove stava giocando, in una bisca clandestina, per andare in bagno. Da dietro la porta della toilette udì il discorso dei due biscazzieri che erano con lui al tavolo verde. I due ridevano, dicevano di averlo spennato come un pollo, di averlo messo in mezzo. Lo chiamavano belinon.

Fu allora che le emozioni di Donato Bilancia andarono in corto circuito. Era sempre stato convinto di essere rispettato, forse anche temuto. Credeva di essere un duro, si accorse che lo prendevano in giro.

Da “Il volto del male” di Stefano Nazzi, Mondadori, 192 pagine, 18 euro.