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Elena Di Cioccio: «Finalmente lo dico: sono sieropositiva»

*__Questo articolo è pubblicato sul numero 14 di __*Vanity Fair in edicola fino al 4 aprile 2023

Tutto è avvenuto, ormai, quando si spostano dal frigorifero, nascosti dietro la lattuga, e arrivano sullo scaffale della cucina. I farmaci antiretrovirali contro l’Hiv sono ora dentro una scatola su cui c’è scritto «Ti amo». «Così mi ricordo ogni mattina quello che non sono mai stata in grado di fare: volermi bene», dice Elena Di Cioccio, gli occhi lucidi. È la prima volta che parla del suo libro, Cattivo sangue, che segna l’inizio della sua terza vita, quella libera da segreti. Nella prima c’è Elena bambina, felice a casa delle nonne, e contro il mondo, a Milano, in quella dei suoi genitori, Anita e Franz, due figli dei fiori che si sono sposati giovani e separati quando lei aveva sei anni. «Era la fine degli anni ’70, nessuno sapeva esattamente cosa fosse un divorzio e i figli dei divorziati: è stata un’infanzia difficile», racconta Elena, lo sguardo che corre verso Regina, il cane nero con le zampe bianche che, dice, «è la mia famiglia». La seconda vita inizia a 28 anni, quando scopre di essere sieropositiva e decide di non dirlo a nessuno, fino a oggi, salvo ad alcuni fidanzati, poi ai genitori e alla sorella, ad alcuni amici. «Mi sono buttata sul lavoro in radio e in tv, e la sera tornavo a casa e mi stordivo, per non pensare». 

Quanta emozione prova all’inizio della sua terza vita?
«Sono felicissima di poter finalmente dire: sono sieropositiva. È una grande liberazione».

Partiamo dalla prima: racconta di essere stata una bambina con un disturbo d’ansia e fobie, come quelle per i ragni e gli squali.
«Scrivo anche che, più avanti, vandalizzavo auto, case, spray sui muri, sassi alle finestre, con gli amici rubavamo per il gusto di rubare».

I suoi genitori cosa le dicevano?
«Ero una bambina che viveva in un contesto troppo grande per lei, le mie esigenze venivano sempre dopo. Mio padre era spessissimo via per suonare (Franz Di Cioccio è tra i fondatori della Premiata Forneria Marconi, ndr) e nessuno si trovava a tavola a fine giornata a chiedere: come è andata oggi?».

Lei è molto onesta nel racconto, fa la tara del fatto di avere avuto genitori alternativi e un padre rockstar, un po’ il suo supereroe.
«E io ero anche una testa calda. Nel libro non parlo molto di mio papà, mai del suo gruppo, del mio patrigno e della mia matrigna dico tre cose, quelle che restano, perché c’è un diritto alla privacy che non intendo violare. Parlo di me, soprattutto. Nella mia storia non c’è uno bravo e gli altri intorno sono tutti cattivi. Ognuno deve spazzare la propria parte di marciapiede, anch’io ho un milione di responsabilità». 

Quali?
«A 15-16 anni ero difficile, a 18 incazzatissima, facevo uso di cocaina,
avevo una proprietà di linguaggio che mi permetteva di intavolare discussioni, e non avevo paura di niente, fuori. Dentro, di tutto».

Chi l’ha salvata?
«Mia madre, quando avevo 22 anni. Si era accorta, a un matrimonio, di un viavai dal bagno. Mi ha guardato in faccia e mi ha detto: “Anche tu, no, amore, per favore no”. Quel giorno, la sua delusione, il mio imbarazzo, l’essermi sentita una perdente invece che la figa che pensavo di essere, mi hanno fermato. Ci ho messo mesi a smettere, ma ce l’ho fatta: sono militare quando decido una cosa. Mai più fatto uso». 

Neanche dopo, lavorando nel mondo dello spettacolo?
«Mi è capitato di trovarmi in situazioni dove la coca girava, certo. Ma non ho ceduto. Oggi non fumo, non bevo, non sono neanche addicted dello yoga che pratico».

Con sua madre ha recuperato un rapporto più avanti. Di suo padre invece scrive che «non c’è stato», anche dopo avergli confidato la sua sieropositività. 
«Mia madre, nel suo modo contorto e strano, e con i suoi mezzi, ha fatto tutto quello che poteva per me. Su mio padre non ho molto da dire, a parte che ognuno ha le sue priorità. Io ho capito tardi di averne, ero sempre in scena in funzione di altri». 

A 28 anni si è scoperta sieropositiva. Come è successo?
«Era l’11 febbraio 2002 quando ho saputo dagli esami del sangue, che facevo ogni sei-otto mesi, compreso il test per l’Hiv, che ero infetta. Era sconcertante perché all’epoca ero un’integralista, temevo le malattie a trasmissione sessuale e mi proteggevo. Avevo convinto anche il mio nuovo fidanzato a fare il test. Peccato che tra l’ultimo esito negativo e quel ragazzo qualcosa è andato storto».

Ai fidanzati importanti ha confidato il suo stato. Con uno non è andata bene.
«C’è chi mi ha accolta e chi ha finto e poi è stato un carnefice. Ogni carnefice ha bisogno di una vittima e viceversa, io con la mia autostima sottozero ero una facile preda». 

L’ha pestata a sangue e lasciata sull’asfalto.
«Sì, terribile. Ma ci concentriamo sempre sulle botte e poco sulla violenza psicologica. Avere paura tutti i giorni che stia per succedere qualche cosa è un continuo fare a pezzi la tua autonomia. Io avevo toccato il fondo». 

È allora che ha pensato al suicidio?
«Ricordo bene quel giorno, io con i piedi che sporgono dal cornicione del palazzo dove ero cresciuta, e il suo messaggio: “Adesso mando a tutti i numeri della mia rubrica, che è quasi identica alla tua, che sei una sieropositiva di merda”. Sentivo di essermi infilata in un tunnel, come quelli che mentono sulla laurea o che hanno i debiti o vengono licenziati e non lo dicono in famiglia, come nell’Avversario di Carrère».

Che cosa le ha fatto fare un passo indietro anziché in avanti?
«Un’illuminazione: avrei solo dato di nuovo potere a quell’uomo, per l’ennesima volta non mi sarei occupata di me. Peccato che poi, anche se quell’uomo l’ho lasciato ho solo cambiato dipendenza: mi sono messa a lavorare come una matta, e mi stordivo di marijuana». 

Si riferisce al periodo in cui era una Iena in completo nero?
«Sì, Velena di giorno, sana e superperformante, ed Elena di notte, depressa, malata, strafatta di canne». 

Non se n’è accorto nessuno?
«No. Mettevo in scena la sicurezza per nascondermi da chi non sapeva, e per rassicurare chi sapeva».

Quanto pesa un segreto simile?
«Significa che non sei mai onesta con nessuno, è come non vivere. Avevo paura di essere me stessa, temevo di essere squalificata dalla partita. Ma la partita di chi?».