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Giulia Tramontano, nell’autopsia l’ultima verità sull’orrore. Il giallo del veleno e il cellulare che non si trova

MILANO. Il veleno, la morte del piccolo Thiago, il numero dei colpi inferti a Giulia. Nel corso della sua confessione, Alessandro Impagnatiello ha ammesso di aver ucciso la compagna ventinovenne al settimo mese di gravidanza ma solo l’autopsia potrà chiarire come e aiutare i magistrati a ricostruire la dinamica di un omicidio su cui restano molte questioni aperte.

Nel pomeriggio, le pm Alessia Menegazzo e Letizia Mannella, con i carabinieri della squadra omicidi del Nucleo investigativo di Milano hanno fatto un punto sui quesiti posti al pool di medici legali, tra cui un esperto di feti, che effettueranno l’autopsia. E che hanno voluto vedere cartelle cliniche e documentazione medica della donna e del bimbo che portava in grembo.

Si dovrà stabilire come e quando è morto il piccolo Thiago, se ha sofferto, se Impagnatiello abbia infierito anche su di lui. Perché, quando il corpo di Giulia è stato ritrovato nella notte tra mercoledì e giovedì della scorsa settimana, era in gran parte coperto da cellophane e sacchetti di plastica che nascondevano quasi tutti i segni delle violenze subite.

Gli esami tossicologici dovranno stabilire l’eventuale presenza, nel sangue della donna e del piccolo che portava in grembo, del veleno per topi. Per capire se davvero l’obiettivo di Impagnatiello fosse quello di ucciderli lentamente per liberarsi di loro. Se, prima di ammazzare Giulia a coltellate, avesse già iniziato ad avvelenarli, lentamente. Due confezioni di quel veleno, infatti, sono state sequestrate nello zaino dell’assassino. E la motivazione con cui ha provato a giustificarle resta poco credibile anche in base alle testimonianze raccolte dagli investigatori. E alle ricerche che il barman trentenne aveva fatto nel web, sugli effetti del veleno sull’uomo, già due settimane prima del delitto.

I medici legali dovranno anche stabilire l’orario della morte di Giulia e quello in cui il corpo è stato abbandonato in quella strettoia piena di sterpaglie tra una fila di box e il retro di un palazzo a cinquecento metri da casa. I tempi non tornano rispetto alla confessione di Impagnatiello. E da un primo esame sembrerebbe che il corpo della donna fosse lì da almeno 48 ore quando è stato ritrovato.

Sulle risposte ai quesiti posti ai medici legali si giocano le aggravanti alle accuse di omicidio, occultamento di cadavere e procurato aborto mosse contro Impagnatiello. Come la premeditazione e la crudeltà, per il momento escluse dalla giudice Angela Minerva, dopo l’interrogatorio di convalida del fermo del trentenne.

Non è ancora stato ritrovato il cellulare della ragazza con cui il barman, mandando messaggi ad amici e familiari, voleva inscenare che fosse ancora viva. Non era, con patente e carte di credito, nel tombino vicino al parcheggio della fermata metropolitana Comasina, in cui Impagnatiello ha detto di averlo gettato.

Dell'eventuale presenza di qualche complicità, non ancora del tutto esclusa, i magistrati si occuperanno solo in un secondo momento. Al termine delle indagini sull'omicidio. Ad acquistare dopo l'omicidio, con 170 euro in contanti, il carrellino con cui Impagnatiello avrebbe spostato il corpo senza vita della compagna, sarebbe stato un giovane con un cappellino in testa. Lo ha confermato il venditore sentito dagli inquirenti. Che però non sa dire con certezza se quel ragazzo fosse Impagnatiello.