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L’impegno europeo perché i crimini russi non restino impuniti

Bruxelles. «Mentre parliamo, continua il terrorismo russo in Ucraina, specialmente negli ultimi giorni gli attacchi si sono intensificati. Perché? La mia conclusione è che l’unico argomento che rimane alla Russia». Vsevolod Chentsov è il capo della missione di Kyjv all’Unione europea. Alla conferenza organizzata dall’Europarlamento sulle sanzioni e su come perseguire i crimini del Cremlino, ribadisce che «è un errore, oltreché un rischio immenso, riassumere la questione come uno scontro regionale o, come fanno alcuni politici, parlare di “crisi ucraina”. Il regime russo è l’architrave di un asse del male, con Iran, Corea del Nord e Siria».

Alla platea chiede di «pensare fuori dagli schemi» e «non fossilizzarci sui dogmi», per trovare soluzioni e «farci guidare dallo spirito della legge». L’ambasciatore invita gli alleati europei a non ricorrere ad altre «deroghe», ma a liberarsi dagli addentellati di cui la Federazione o i suoi intermediari ancora dispongono. Sintetizza ciò di cui il suo Paese ha bisogno così: «Aiutateci a difenderci». Chentsov cita lo schema Asap, per produrre le munizioni necessarie all’Ucraina, che verrà votato in aula domani, e i caccia, su cui invece ancora non c’è un impegno europeo.

Contromisure senza precedenti  
«Fin dall’inizio», aggiunge la vicepresidente dell’Europarlamento Pina Picierno, «le ostilità superano un conflitto regionale. Da quindici mesi, assistiamo a una nazione che prova ad annientare il popolo ucraino». Vladimir Putin sperava nell’indolenza e nella neutralità dell’Europa, dice Picierno, ma il dittatore ha perso la scommessa. L’Ue ha risposto, da subito, con le sanzioni. «Sono sempre state un elemento cruciale della politica estera europea che sconta la mancanza di una forza militare credibile», spiega Nicoletta Pirozzi, responsabile del programma “Ue, politica e istituzioni” dello Iai.

Le restrizioni sono diventate una presenza costante nel dibattito pubblico in seguito al 24 febbraio 2022, ma le prime emesse contro la Russia risalgono al marzo 2014. All’annessione illegale della Crimea, antefatto della guerra di otto anni dopo. Da allora, Mosca si è preparata al decoupling; non si può dire lo stesso dell’Europa. «Se una parola mi viene in mente, riguardo le sanzioni, è “senza precedenti” – dice Anna Caprile, analista del servizio di ricerca dell’Europarlamento –. Funzionano? Il messaggio politico è lì, gli effetti devono ancora vedersi fino in fondo se si considera che la Russia ha ancora le risorse per sostenere una guerra».

La Federazione è diventata lo Stato più sanzionato al mondo, più della Corea del Nord. Spesso parliamo di «regime di sanzioni», anche se per i tecnici che ci lavorano tutti i giorni la formula più corretta è «quadro legale specifico». Nei confronti di Mosca esistono più schemi, da quello finalizzato a colpire la sua economia a quello centrato sui territori occupati. «La stampa sottolinea le frizioni, ma sono davvero senza precedenti. Prima della guerra nessuno pensava sarebbe stato possibile, invece dieci pacchetti sono stati approvati all’unanimità dai ventisette Stati membri», spiega Sandra De Waele, che guida la divisione Sanzioni del Seae, il Servizio europeo per l’azione esterna.

In Europa sono ventisette pure le agenzie per implementarle, più la Commissione, mentre gli Stati Uniti ne hanno una sola. De Waele paragona le sanzioni a «un corpo vivente, hanno bisogno di essere aggiornate spesso» e anche per disegnarle serve inventiva, bisogna concepire strumenti che prima non c’erano. Per esempio, offrono la base legale per congelare i beni (quasi duecento miliardi se si includono le riserve della Banca centrale), ma non per confiscarli. Un problema passa infine dalle cosiddette «sanzioni secondarie», cioè come impedire a Paesi terzi di aggirarle, e qui è cominciata una fase di vera e propria «diplomazia delle sanzioni», con la nomina di un inviato speciale dell’Ue, David O’Sullivan.

Il panel al Parlamento europeo su sanzioni e un tribunale per perseguire i crimini di guerra russi
Il panel al Parlamento europeo su sanzioni e un tribunale per perseguire i crimini di guerra russi
Il panel al Parlamento europeo

La vera pace è una pace giusta
Le restrizioni sono una reazione da tempi di guerra. Frequentemente, i media raccontano solo l’ultimo pacchetto, elencandone le novità, come se fosse scorporato da tutti quelli che l’hanno preceduto. È con una visione d’insieme che si inquadra il potenziale, per inceppare la macchina bellica russa. Dopo la vittoria dell’Ucraina, un aspetto cruciale su cui si misurerà la credibilità dell’Occidente è quello della giustizia. Il crimine commesso dalla Federazione, l’aggressione, esiste nel diritto internazionale, ma non ne è stata formalizzata una definizione.

Gli altri tre sono genocidio, crimini contro l’umanità e di guerra. Putin e i suoi complici dovrebbero finire alla sbarra per tutte e quattro le fattispecie. «Non fate un errore: l’aggressione russa dell’Ucraina è genocidaria – dice Rula Jebreal, visiting professor dell’università di Miami –. Il Cremlino deve risponderne per evitare atrocità simili in futuro». La giornalista fa l’esempio della Siria: le stesse unità che testavano le armi sui civili sono state ora dislocate al fronte ucraino, per importare là il “modello” messo a punto con un altro macellaio, Bashar al-Assad.

«Nel confronto tra democrazie autocrazie c’è un tema di impunità – aggiunge l’ex sottosegretario italiano agli Affari Esteri, Gianni Vernetti –. La vera pace è una pace giusta, non la resa. È fondamentale dare giustizia agli aggrediti. Un tribunale sarebbe importante anche per gli aggressori: la Russia perderà la guerra e, a mio avviso, tra due anni la Federazione russa per come la conosciamo ora non esisterà più, ci sarà un tema di decolonizzazione, come l’Unione sovietica nel 1991». Mosca è diventata «un esportatore globale di instabilità».

Lo statuto di Roma del 1998, che ha istituto la Corte penale internazionale, non prevede il reato di «aggressione». Gli Stati Uniti e la Russia, è noto, non hanno mai aderito. Come spiega la professoressa dell’università di Milano, Chantal Meloni, che all’Aja rappresenta le vittime, una possibilità sarebbe trovare una maggioranza per modificare il trattato. Rispetto al tribunale ibrido, su cui pare ci sia la preferenza di Washington, un’alternativa sarebbe una corte speciale sotto mandato delle Nazioni unite. Il Consiglio di sicurezza è paralizzato dai veti di Mosca, una soluzione second best sarebbe allora coinvolgere l’Assemblea generale.

Nonostante il Consiglio europeo abbia riconosciuto la necessità di punire il crimine di aggressione, resta quello che il direttore dell’ufficio legale del Seae, Frank Hoffmeister, definisce un «gap di accountability». Come agire di fronte ai mandati d’arresto, elusi grazie a chi riconosce l’immunità diplomatica ai criminali di guerra come fa il Sud Africa per il vertice Brics. Da questo punto di vista, però, qualcosa si sta già muovendo, riferisce Hoffmeister. È nato, ed è operativo da febbraio, l’International centre for the Prosecution of the crime of aggression.

Al suo interno uniscono le forze le nazioni che riconoscono una «giurisdizione universale» per le atrocità perpetrate fuori dai loro confini. Sul campo lavorano già gli esperti messi a disposizione dagli Stati membri: stanno raccogliendo le prove su cui sarà basato il processo a Putin e ai cleptocrati. «Non possiamo accettare le intimidazioni russe», ricorda Chentsov, «e non sto parlando a nome della classe politica, ma della società, dopo tutta la sofferenza che ha subìto. Accettare l’offerta di Putin significherebbe la schiavitù».