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La fine della saga contro la Juve e le pene inflitte a furor di popolo

Dunque è finita con una semplice multa la saga della Juventus e della giustizia sportiva. Una degna conclusione di compromesso che sottolinea – ammesso ve ne fosse bisogno – la natura politica del processo al club bianconero. Vediamo perché.

Il patteggiamento, come espressamente riportato nel dispositivo è stato applicato ai sensi dall’art. 127 del codice sportivo che stabilisce che «dopo il deferimento l’incolpato può accordarsi con la procura federale per chiedere all’organo giudicante l’applicazione di una sanzione ridotta o commutata».

Ridurre la pena vuol dire, ovviamente, una semplice diminuzione di quella che il giudice ritenga giusta da infliggere mentre la “commutazione” (istituto, pare di capire, dibattuto dalla giurisprudenza sportiva) vuol dire tramutare una pena di un certo tipo – ad esempio una squalifica o una privazione di punti – in un’altra di diversa natura (solitamente una sanzione pecuniaria).

In questi casi, sia nell’enunciazione dell’accordo fra le parti sia nel dispositivo della sentenza se ne dovrebbe fare menzione indicando la pena originaria. Nella sentenza del tribunale sportivo non ve ne è menzione, sicché si desume che sia applicata una semplice riduzione del tipo di pena che procura e tribunale hanno ritenuta adeguata al caso: una ammenda.

Se è così allora è legittimo chiedersi perché in sede di revisione (e non di giudizio di merito) per la contestazione delle plusvalenze si sia invece applicata una sanzione di tipo diverso, come la sottrazione di punti.

Non c’è alcuna logica spiegazione: tutti gli esperti erano concordi nel ritenere assai più rilevante e grave la questione degli stipendi rispetto a quella dell’alterazione dei bilanci. Diciamo che le due incolpazioni sono di analoga natura, risolvendosi entrambe in una falsificazione delle scritture contabili e nella violazione dei principi contabili internazionali.

Allora perché due pesi e due misure? Non c’è altra risposta che in motivi di opportunità politica. In realtà la vicenda delle plusvalenze era solo un problema di ordinario diritto penale di competenza esclusiva della giustizia dello Stato italiano e non di quella sportiva.

Nessuna prova e nessuna contestazione è stata mossa contro il club di Torino per aver influito con l’alterazione dei bilanci sulla regolarità delle competizioni sportive.

È legittimo allora sospettare che l’apparato sportivo abbia colto al balzo l’occasione dell’indagine penale della procura torinese (peraltro probabilmente incompetente a indagare, deve decidere la Cassazione) per una esemplare esecuzione pubblica contro gli autori del “golpe della Superlega”.

È questo il terribile spettro che si aggira per l’Europa calcistica e sulla cui legittimità dovrà pronunciarsi prossimamente la Corte di giustizia europea.

Nei sistemi autoritari è consuetudine infliggere pene “coram populo” che servano di monito, contro coloro che attentino alla loro sovranità per poi magari mostrarsi magnanimi e concedere la grazia dopo che il reprobo si emendi della colpa.

Il pellegrinaggio di John Elkann a Napoli e la richiesta di patteggiamento sono da ritenersi una manifestazione di pubblico pentimento che un Paese intriso di senso cattolico come il nostro non può non approvare.

C’è solo da chiedersi se l’Italia e la sua industria sportiva abbiano bisogno di questo e debbano accontentarsi di un simile sistema di giustizia, nello sport e altrove. E se per caso dietro l’offensiva anti-Juventus non si celi l’atto finale di un processo di trapasso di potere.

La Juventus in oltre un secolo è stata l’immagine e l’estensione di un indiscusso potere finanziario capace di sopravvivere anche al suo declino industriale e a quello della sua città, di misurarsi con i grandi cambiamenti della storia politica (si pensi al Berlusconismo che pure non ha intaccato il predominio calcistico).

Oggi è l’epoca dei fondi di investimento e dei sovranismi finanziari: Torino è solo un piccolo punto in un panorama geopolitico e sportivo divenuto troppo grande.