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Le cose da sapere per bere bene

Trecentoquarantotto. Non uno di più, non uno di meno. Sono i bianchi, i rossi e i rosati raccontati nella seconda edizione della guida I vini per l’estate by DoctorWine, in uscita in questi giorni. Chi non conosce Daniele Cernilli, ideatore di DoctorWine, web magazine dedicato al vino, potrebbe ipotizzare che si tratti di un divertissement che strizza l’occhio al marketing. Perché 348? Perché non arrivare a cifra tonda?. La risposta è semplice e senza retropensieri: «La selezione ha dato questo risultato» spiega Cernilli. «Non siamo partiti con l’idea di raggiungere a tutti i costi un numero preciso. Questa pubblicazione è il frutto di un anno di assaggi ed è legata al grande lavoro dietro la stesura della nostra opera più importante, la Guida essenziale ai vini d’Italia. Per realizzarla ne degustiamo moltissimi ed è evidente che non tutti possano rientrarvi. Pertanto, abbiamo scelto “tra gli esclusi” i più adatti per freschezza e beva a essere consumati nella stagione calda. I metri di giudizio? Competenza e obiettività».

Per la verità Cernilli è molto altro. Un «altro» che fa di lui un’istituzione nel settore. Benché non ami questa definizione (di sé dice «cerco solo di fare al meglio il mio lavoro, nel rispetto di quel tesserino da giornalista conquistato anni fa»), lo è a tutti gli effetti. Con Carlo Petrini ha fondato nel 1987 la Guida Vini d’Italia del Gambero Rosso e ne ha curate 24 edizioni. A lui si deve il celebre punteggio «in bicchieri». «Una bottiglia» afferma «equivale a una mescita di sei bicchieri. Se due commensali la finiscono, bevendo tre calici a testa, significa che il vino è piaciuto moltissimo. Se ne bevono due o uno soltanto, vuol dire che hanno avuto la necessità di provare anche altro». Cernilli ha scritto libri, è docente a corsi di degustazione professionali, conferenziere, direttore della rivista L’Assaggiatore dell’Onav (Organizzazione nazionale assaggiatori di vino), degustatore ufficiale a concorsi nazionali e internazionali. In 40 anni di carriera ha all’attivo qualcosa come 150 mila assaggi, quasi 4 mila vini all’anno, «li sputo, altrimenti non sarei qui a raccontarlo!».

Impossibile, davanti a tanta autorevolezza, non domandare quanto oggi siano determinanti le guide, e più in generale, come se la passi la comunicazione del vino, argomento che - Antonio Abanese con la sua parodia del sommelier insegna - si presta a esilaranti birignao. Del resto, senza offesa, è agli atti che ci sia un po’ di teatralità nella narrazione enoica. Un modus operandi che restituisce al pubblico l’immagine del critico come entità superiore, un eletto con un’agenda da rockstar che i produttori anelano ad avere in cantina. «Il narcisismo, se vogliamo chiamarlo così, è un tratto comune a molte professioni. Il tema è un altro» prosegue. «Mi chiedo quanto serva essere ovunque, sempre. Sono convinto che un distacco tra produttore e critico sia necessario. Sano. Noi di DoctorWine abbiamo una politica molto chiara. Non chiediamo quasi mai ai diretti interessati le bottiglie da degustare. Le assaggiamo nelle sedi dei Consorzi e durante le manifestazioni. L’autorevolezza del mestiere passa anche da questo. Evitiamo relazioni che possano minare un’analisi oggettiva».

Un altro tema, si diceva, è quello della comunicazione. «Il nostro compito è informare affinché le persone possano bere consapevolmente, meglio e se possibile meno. Questo implica l’utilizzo di un linguaggio serio, concreto e semplice che rifugge neologismi solipsistici. Oggi molti usano dire di un vino che è «minerale». Bene, non significa nulla. I minerali non hanno odore. È una civetteria che si sono inventati i francesi per dare un tocco di complessità al racconto. Per non parlare di chi nel calice trova quaranta profumi. Come quello di peonia, fiore che non sa di niente. E che dire dei vini definiti naturali? Non esistono. La viticoltura e la vinificazione sono processi assistiti.

Un produttore può essere attento a inquinare il meno possibile, certo, ma il suo intervento è necessario. Prendiamo la famigerata anidride solforosa. Altro non è se non un disinfettante. Si può essere accorti, metterne nel vino quantità ridotte perché fa venire il mal di testa, ma l’assenza può causare conseguenze peggiori. Urge tornare con i piedi per terra. Henri Jayer, leggenda della Borgogna, diceva: «Per usare meno enologia bisogna conoscere l’enologia».

E le guide? Sono ancora determinanti per il mercato? «Sono un’inchiesta annuale sullo stato dei vini italiani di qualità. Quando sono nate negli Anni Ottanta potevano cambiare le sorti di un’azienda. Sotto Natale erano al settimo posto nella lista dei libri più venduti. Oggi i consumatori hanno a disposizione molti strumenti, i blog, i social network, le piattaforme di e-commerce. Difficile che qualcuno si presenti in cantina con il tomo sotto braccio. Altra cosa è l’impatto sul mercato». Sono ancora un punto di riferimento per i buyer internazionali e per i grandi monopoli del vino del Canada e del Nord Europa. Una bussola per orientarsi nella jungla dell’offerta. Come sarà il prossimo Solaia? Il prossimo Redigaffi, il Sassicaia? E il Barolo di Bartolo Mascarello? «Se fatte bene, le guide devono rispondere efficacemente a domande simili» chiosa l’esperto. Quelle firmate da Cernilli, lo fanno.

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