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Spazio al tempo, perché la passione non basta più

“La prima cosa che viene chiesta durante i colloqui è il giorno libero”. A parlare è la chef Micol Zorzella del Bistrot Antica Amelia, dando così inizio al dibattito del tavolo 2. I ritmi in cucina e gli orari di lavoro hanno causato una fuga di massa dal settore della ristorazione, ma che sia stato questo l’unico motivo?
Il settore della ristorazione è quello che, da sempre, ha più risentito dei momenti di crisi e cambiamento: dalla pandemia e mancanza di personale, al rincaro di luce, gas e materie prime. Dall’ultimo Rapporto Fipe-Confcommercio è emerso che alle attività mancano circa 235mila persone da assumere per i mesi estivi e che nella metà dei casi sarà impossibile reperirle. Le cause principali sono l’assenza di candidati e, solo in secondo piano, l’inadeguatezza dei curricula.

Rivolgendo lo sguardo alle future generazioni, la situazione è altrettanto drammatica: in meno di cinque anni è stata registrata una diminuzione del 47% delle iscrizioni agli istituti alberghieri. I ragazzi optano per soluzioni con sbocchi più sicuri, intimoriti da salari bassi, contratti precari e orari estenuanti in cucina. Gli istituti statali di formazione alberghiera si sono visti ridurre sia le ore dedicate alla pratica, sia i fondi per comprare le materie prime e sono stati velocemente surclassati dalle accademie private. Questo scenario ha rafforzato la divisione tra scuole di “serie A” e di “serie B”, screditando ulteriormente la reputazione degli istituti pubblici.

@Gaia Menchicchi

La spettacolarizzazione della figura dello chef sta tramontando e la carriera dietro ai fornelli non è più vista come corsia preferenziale per raggiungere prestigio economico e sociale. La narrazione è cambiata, lasciando spazio a una visione indubbiamente più disillusa e drammatica, a tratti horror. Le esperienze di alcuni protagonisti del nostro tavolo fanno dedurre che ci sia un fondo di verità in queste rappresentazioni. Le cucine possono essere palcoscenico di sfruttamenti, soprattutto nell’alta ristorazione, dove i ragazzi alle prime armi sono disposti a sopportare maltrattamenti pur di lavorare a fianco dei cuochi più blasonati.

Lo chef Alberto Suardi ha passato 11 anni della sua vita dietro ai fornelli di ristoranti stellati e, solo dopo un grave problema familiare, ha trovato il coraggio di cambiare strada. Non rinnega l’importanza di quegli anni per la sua formazione personale e professionale, ma riconosce che quello stile di vita non era (e mai sarà) sano. Adesso lavora per il gruppo Big Mamma a Parigi, che gli garantisce il «tempo di vivere al di fuori della cucina». Alberto sottolinea che ora, paradossalmente, lavora molto di più di quanto dovrebbe secondo contratto, perché stimolato e rilassato. Nel raccontare la sua esperienza introduce la tematica della salute mentale, tanto importante quanto sottovalutata quando si parla di carriera.
Big Mamma incentiva i dipendenti a sfruttare il servizio di supporto psicologico offrendo 4 sedute gratuite e una riduzione del prezzo per il resto degli incontri. Come conseguenza, hanno riscontrato una diminuzione del turn-over del personale e un miglior rendimento generale sul lavoro.

@Gaia Menchicchi

Ciò che emerge dall’animata conversazione è che il problema non parte dalla mancata passione del personale e che si può pensare a una potenziale soluzione solo con un punto di vista sistemico. La standardizzazione del modello lavorativo è obsoleta e va superata, facendo spazio a una personalizzazione del carico e tempo di lavoro in base alle necessità dei lavoratori.

In un Paese come l’Italia, in cui il turismo rappresenta una delle fonti di guadagno più importanti per l’economia nazionale, è necessario ricalcolare la rilevanza del mondo della ristorazione, dall’istruzione alla realtà lavorativa. Con l’obiettivo di dare dignità alle figure professionali di sala e cucina, le istituzioni devono essere coinvolte nel dialogo.