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Succession 4, l'atto finale del dramma familiare, tra satira e tragedia: la recensione

Tutti gli imperi prima o poi devono crollare, e così anche Succession sta per giungere al termine. La fortunatissima e pluripremiata serie della Hbo debutta con la quarta e ultima stagione il 3 aprile su Sky e in streaming su NowTv, concludendo un dramma famigliare dinastico che ha avvinto milioni di spettatori con la sua esaltante miscela di linguaggio scurrile e crudeli giochi di potere. Le aspettative sono alte e, stando a quanto ho visto finora della stagione (quattro episodi), non saranno deluse.

Potrebbero però essere sovvertite. Temo che approfondire questo aspetto mi condurrebbe nel territorio degli spoiler, un terreno che non oso calpestare. Ciò che posso confermare, se non altro, è che l’avvincente ed elegante serie di Jesse Armstrong rimane tale anche all’inizio dell’ultimo giro.

L’ultima volta che l’abbiamo lasciata, la famiglia Roy (a capo di un conglomerato mediatico noto per il suo network conservatore di notizie via cavo, i parchi a tema, una linea di crociere e altre attività secondarie) stava affrontando uno scisma come non se ne erano mai visti prima. I figli Kendall (Jeremy Strong), Shiv (Sarah Snook) e Roman (Kieran Culkin) avevano tramato contro il padre Logan (Brian Cox) per bloccare la vendita della società a un eccentrico arcimiliardario svedese della tecnologia, Lukas Matsson (Alexander Skarsgård). Ma grazie al subdolo marito di Shiv, Tom (Matthew Macfadyen), Logan è venuto a conoscenza del piano precipitando i figli nel caos e nell’imbarazzo della sconfitta.

La quarta stagione riprende con i figli riorganizzati e in procinto di incontrare potenziali investitori per la loro startup di notizie nuova di zecca (una specie di portale di cazzate che hanno chiamato The Hundred). È qui che Armstrong comincia a sfoggiare le sue doti satiriche più affilate: il modo in cui i figli, e in particolare Kendall, parlano di questa nuova impresa suonerà paurosamente e disgustosamente familiare a chiunque abbia strisciato nelle miniere mediatiche negli ultimi 15 anni. Si tratta di Succession al suo meglio: frivola ma dalla posta in gioco alta, uno sguardo colpevolmente invidiabile sulle esistenze ben equipaggiate dei ricchi come pure una vertiginosa messa alla gogna delle loro repellenti vanità.

Tutti gli attori sono in forma smagliante: la vivace rappresentazione di Snook degli ipocriti tentativi di Shiv di mantenere la superiorità morale; il modo triste e mordace di Culkin di rendere l’umorismo di Roman, caustico ma sulla difensiva; il coglione irascibile di Strong, convinto che i soldi lo abbiano reso astuto e cool. Il Logan di Cox, che guarda con occhio torvo i figli attraverso vari strati di assistenti e faccendieri, è più minaccioso e terrificante che mai, ma la gelida inquietudine da Re Lear della prima stagione è forse tornata a insinuarsi in lui.

Può darsi che Logan, il titano in declino, sottovaluti effettivamente i figli, se non altro per l’attendibilità della loro turbativa. Per i figli probabilmente è lo stesso, anche se si sono convinti (forse tragicamente) di essere finalmente liberi dal suo giogo. Nei primi episodi, i giovani Roy ottengono quella che sembra una vittoria importante, riuscendo finalmente a ingannare il vecchio padre cattivo e a insediarsi come alfieri del casato mentre il futuro corre loro incontro.

Ma il successo è effimero in Succession, il che colloca la serie a metà strada fra il thriller e la commedia patetica. Negli episodi che ho visto, la tensione cruciale che si crea, la sua follia e il suo terrore sono amplificati, anche se non in modo eclatante.

Nello stesso tempo, su queste persone terribili è calata una certa mestizia. Certo, perché la serie sta per finire. Ma anche perché nessuno dei personaggi sembra pronto a ottenere davvero e finalmente ciò che vuole: l’enorme profitto di Logan, la fuga dei figli dal suo controllo. Stanno affrontando l’irrevocabilità della vita dopo la lotta, una prospettiva che li vincola con legami nuovi e irrequieti. A volte li sentiamo parlare di vite alternative, in cui i Roy (e chi gravita nella loro orbita) sono da qualche altra parte a godersi semplicemente i soldi, usandoli per «comprare sushi e motoslitte» o vivere a Milano, «senza smettere mai di fare shopping». Probabilmente, però, non arriveranno mai a quel languido Eden perché, come dice la vecchia e trita analogia, se uno squalo smette di nuotare muore.