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Viaggio in Perù, sui binari delle Ande

Questo articolo è pubblicato sul numero 22-23 di Vanity Fair in edicola fino al 6 giugno 2023

Il Perù è un altrove, mentale oltreché geografico: qui i fiumi scorrono seguendo la forma delle costellazioni, le ombre delle pietre sembrano animali e la Pachamama, la grande Madre Terra, dà i suoi frutti e chiede continua riconoscenza.

Cusco

Il viaggio per arrivare in questo Paese, lontano dall’Italia 10.483 chilometri e 16 ore di aereo, è lungo, ma non serve aspettare di avere chissà quale tempo a disposizione: anche solo 10 giorni consentono un giro che si ricorderà per sempre. Per adesso chi proviene da fuori non ha altra scelta che atterrare a Lima (facendo spesso uno scalo), ma il consiglio è preservarsi questa fermata per la fine del viaggio, perché il Perù ha da dare soprattutto fuori dalla metropoli: è fatto di Ande, di laghi, di campi di grano, di alpaca, di persone con storie arcaiche. Meglio allora spostarsi a Cusco, in un’ora di volo si è lì: è la città più vicina al famoso Machu Picchu, che – si sa – è una tappa obbligata. Questo antico centro abbandonato è una delle cartoline più viste di tutto il Paese: qui, nel 1400, vivevano 400 persone, adorando Apu, il dio della montagna, che proteggeva tutti gli abitanti. Per arrivare fin là e tornare c’è un lussuosissimo treno (+ bus da Aguas Calientes), su cui si sale alla stazione di Poroy, appena fuori dalla città di Cusco: è l’Hiram Bingham, il treno che prende il nome dall’archeologo americano che nel 1911 trovò i resti di questa sperduta cittadella inca. Sono vagoni eleganti, con tanto di ristorante, musica dal vivo, open bar e una guida pronta a spiegare paesaggi e passaggi. Un Orient Express dall’altra parte del mondo.

Tornati a Cusco, con un bagaglio di ricordi che già si fa carico, il suggerimento, prima di riprendere il viaggio, è quello di stare qui almeno un paio di giorni e goderne l’incanto: oltre alla piazza della cattedrale, sarebbe un peccato perdersi il mercado de San Pedro, la vista dalla chiesa di San Cristobal, un’onirica cena nella chiesa dell’Hotel Belmond Monasterio e il quartiere di San Blas, famoso per le piccole botteghe artigiane e le gallerie d’arte. Ovunque la gente per strada vende uova di quaglia bollite, succhi di mango e churros, ovunque le donne tessono tovaglie colorate.

Un bimbo della comunità Rawanqui

Un bimbo della comunità Rawanqui

Il 70 per cento dei peruviani lavora un giorno per vivere un giorno: ognuno si arrangia, senza troppe pretese. E la vita va avanti così. Ed è anche per questo che le case, intorno, sono tutte pressoché incomplete: i soldi qui non avanzano e quando si costruisce uno spazio minimamente abitabile va bene quello, non importa se sprovvisto di facciate decorate o chissà quali rifiniture. C’è una strana dualità: da una parte molti peruviani trascorrono un’esistenza più che essenziale, molto pratica (mangiare, bere, dormire, fare bambini); dall’altra sono fedeli a tradizioni che richiedono riti spirituali e abiti ricamati, che spesso rimandano a simboli complessi. Esempio su tutti la comunità Rawanqui, che abita nella regione di Quechua: la strada per andare da loro è dissestata, le case intorno sono fatte di terra, ma appena si arriva l’accoglienza è regale, tra petali di fiori che volano, canti benaugurali e abbracci stretti. Agli ospiti vengono offerte pannocchie con un pezzo di formaggio e una deliziosa salsa a base di huacatay, una menta nera peruviana. Damian Cosmé, 52 anni e cinque figli, vive lì da tutta la vita e non ha mai pensato di trasferirsi: «Noi qui viviamo coltivando quinoa, mais e patate. Abbiamo la luce grazie ai pannelli solari, c’è la tv, e di Internet ne facciamo a meno». Quello che è cambiato negli ultimi anni è che la sua comunità è rientrata nel Q’omer Wasicha, progetto che aiuta le persone locali a coltivare verdure biologiche ed erbe aromatiche in serre attrezzate: avere insalata, zucchine e verdure fresche vuol dire un’alimentazione migliore e la possibilità di possedere qualcosa e di venderlo al mercato, al di là di quello che serve alla sopravvivenza. A molti, questo progetto ha cambiato la vita: «Nella comunità di Occoruro, nella provincia di Anta, coordina tutto Ana Maria, una donna che, proprio grazie ai pomodori e ai cetrioli che da pochi anni ha imparato a coltivare, tiene in piedi tutta la famiglia: i suoi prodotti di qualità eccelsa sono richiestissimi dai ristoranti della zona», racconta Carla Reyes, Area Director of Communications di Belmond, il grande gruppo di hôtellerie emblema del lusso che qui ha alberghi e treni leggendari. Ne parla con orgoglio perché l’azienda per cui lavora è una delle principali sostenitrici di questo circolo virtuoso: «È importante creare opportunità e prospettive per chi, come molti peruviani, vive ancora legato alle tradizioni più antiche. Nei nostri alberghi di Cusco offriamo uno spazio gratuito agli artigiani che arrivano dalle diverse comunità, in modo che possano avere una vetrina per i loro prodotti e mostrare la tecnica ancestrale della tessitura ai nostri ospiti. Quello che prendono va direttamente a loro e Belmond si preoccupa di sostenerli e far sviluppare le diverse attività, permettendo così che non vengano perdute o dimenticate. In più, compriamo dalle comunità i prodotti che servono per gli alberghi: così, per esempio, nel nostro hotel Rio Sagrado le patate arrivano da un piccolo gruppo di Patacancha che sta nella valle di Urubamba».

Sulle isole degli Urus

Queste piccole comunità, a guardarle con occhi metropolitani, sembrano in equilibrio precario e invece durano da centinaia di anni. Come gli Urus, che vivono sul Titicaca, il più grande lago del Sudamerica (204 km per 65 di larghezza). I peruviani dicono che ha la forma di un puma che insegue un coniglio: per vederlo ci vuole fantasia, e loro ne hanno parecchia. E qui, tra i piccoli pesci carachi amarillo e le rane giganti, gli Urus si sono costruiti un’enorme città, fatta da 110 isole artificiali: su ciascuna vivono di solito cinque famiglie, più o meno 25 persone. Per allestire le loro piattaforme galleggianti usano la totora, un tipo di canna simile al bambù: partendo da Puno, navigando non più di 20 minuti, si arriva da loro e sembra di entrare in un enorme villaggio di paglia. Gli Urus vivono pescando, cacciando uccelli (ne mimano i versi in modo incredibile) e vendendo i loro manufatti ai turisti di passaggio. Sono ben attrezzati: a Isla Mojsa, per il prezzo di 120 soles (equivalente di 30 euro) si dorme in due con colazione inclusa. È Luis, un giovane ragazzo sveglissimo, a coordinare gli alloggi: «Possiamo ospitare fino a un massimo di quattro persone: ci trovate pure su Airbnb».

Anche in questo caso andarci in treno può essere la svolta. Sullo stesso stile dell’Hiram Bingham c’è lo stupefacente Andean Explorer, un treno che parte da Cusco, arriva a Puno e poi riparte verso Arequipa, con qualche sosta ben pensata: dal micromercato di La Raya, dove è impossibile trattenersi dal comprare una sciarpa o una coperta che sia, alle cave di Sumbay, dove José, 69 anni, aspetta paziente con il suo cane Tarzan di accompagnare i passeggeri a visitare preistorici graffiti di 8.500 anni fa.

Jos il «guardiano» delle cave di Sumbay

José, il «guardiano» delle cave di Sumbay

Un viaggio unico, perché su quei binari tra le Ande si spostano solo questi vagoni, per cui o così o niente: con il ritmo costante del treno si perdono le coordinate spazio-temporali. Secondo il calendario passano tre giorni, ma sembra di attraversare interi secoli: «Sfioriamo i 5000 metri di altitudine, qui abitano poche persone, che vivono per lo più di baratto», spiega Mirna, una guida che di altitudini se ne intende. La terra lassù non dà granché e intorno non c’è nulla, se non lama, alpaca e vicuña, un animale selvatico protetto, con zampe sottili e portamento elegante: «Lama e alpaca sono allevati e sono spesso l’unica fonte di ricchezza. Ma le vicuña devono stare in libertà. Solo durante il festival Chaku, in agosto, c’è un rito collettivo per tosarle: il loro pelo vale oro».

L’arrivo ad Arequipa, dopo giorni di isolamento itinerante, stranisce, tra la gente e le case, una bellezza urbana con edifici barocchi costruiti in sillar, una pietra vulcanica bianca. È la seconda città del Perù (nonostante l’aeroporto decisamente piccolo e altamente «analogico») e non si può ripartire senza aver visto Plaza de Armas.

Un piatto di Pía León

Da Arequipa, con un volo, si arriva presto a Lima, la capitale con il suo cappello di nuvole basse. Meglio fermarsi qui alla fine del viaggio anziché all’inizio, riabituarsi così a quei modi che più ci sono consueti, tra negozi, grandi piazze e indirizzi ormai celeberrimi nel mondo intero: è qui il ristorante numero uno del Sudamerica, il famoso Central degli chef Virgilio Martínez e Pía León, con piatti introvabili altrove, dal Black Rocks (con alghe, vongole e calamari) al Blue-Green Ocean (una combinazione di capesante e cetrioli). E proprio all’inizio di maggio Pía ha inaugurato Mauka, all’interno di Palacio Nazarenas, a Cusco, dove si assaggiano sapori inebrianti, tutti ricordi da portarsi a casa: dove vi capiterà, se non qui, di provare in un’unica cena il mashwa, le foglie di kunuka, il rocoto, i semi di sacha inchi e l’achiote? Ed è bello non sapere nemmeno che cosa siano: anche per questo il Perù è uno dei viaggi della vita.

Hotel Belmond Monasterio a Cusco

Hotel Belmond Monasterio, a Cusco

Melanie Dizon la direttrice artistica della galleria d'arte della ong Xapiri Ground un bellissimo progetto che coinvolge...

Melanie Dizon, la direttrice artistica della galleria d'arte della ong Xapiri Ground, un bellissimo progetto che coinvolge le popolazioni indigene della foresta Amazzonica peruviana.

Maria della comunità degli Urus

Maria, della comunità degli Urus

Il lago Titicaca
L'Andean Explorer che corre tra le Ande

L'Andean Explorer, che corre tra le Ande